CAPITOLO VIII
ESPOSIZIONE DELLA LEGGE MORALE

1. Non sarà fuori luogo inserire a questo punto i dieci comandamenti della Legge con un breve commento che chiarirà meglio quanto già è stato detto, vale a dire che il servizio stabilito da Dio un tempo rimane in vigore per sempre, e gli Ebrei non sono stati solo istruiti riguardo al giusto modo di servire Dio, ma, avendo constatato la propria incapacità ad osservare i comandamenti ricevuti, sono stati anche umiliati e spaventati dal pensiero del giudice, essendo così condotti, come per necessità, al Mediatore.
Esponendo, in breve, in che consiste una vera conoscenza di Dio abbiamo mostrato come sia impossibile concepirlo nella sua grandezza senza che la sua maestà ci afferri obbligandoci a servirlo. Nella conoscenza di noi stessi, abbiamo detto, il punto principale consiste nell'essere vuotati da ogni illusione sulle nostre capacità, spogliati di ogni fiducia nella nostra giustizia, abbattuti dalla considerazione della nostra povertà: sì che impariamo l'umiltà perfetta onde abbassarci e rinunciare ad ogni vanto. Entrambi gli aspetti sono messi in evidenza dalla Legge di Dio, nella quale il Signore attribuitosi il potere di comandare, ci insegna ad avere il dovuto rispetto per la sua divinità, indicando in cosa consista questo rispetto. Successivamente, avendo stabilito la norma della giustizia ci rimprovera sia la nostra debolezza che la nostra ingiustizia; la nostra natura, corrotta e perversa, è infatti riluttante ad osservare questa norma e, deboli ed incapaci, non siamo in grado di adeguarci alla sua perfezione.
Ora tutto ciò che bisogna imparare dalle due Tavole, ci è insegnato in una certa misura dalla legge interiore che, abbiamo detto, è scritta e quasi scolpita nel cuore di tutti. La nostra coscienza, infatti, non ci lascia riposare in uno stato di perenne sonnolenza, priva di reazioni, anzi ci rende una testimonianza interiore e ci ricorda quel che dobbiamo a Dio, e mostra la differenza tra il bene e il male; e ci accusa, in tal modo, quando non facciamo il nostro dovere.
L'uomo però è avvolto nell'oscurità dell'ignoranza a tal punto da poter appena intuire, per mezzo di quella legge naturale quale sia il servizio accetto a Dio, ed è ben lungi dall'averne retta conoscenza. È inoltre talmente gonfio di ambizione e di orgoglio, talmente accecato dall'amore di se, da non essere in grado di esaminarsi e scendere in se, per così dire, per imparare ad umiliarsi e a confessare la propria miseria.
Di conseguenza il Signore ha dato la sua Legge scritta, necessaria alla rozzezza del nostro spirito e alla nostra presunzione, per darci una testimonianza più chiara riguardo a ciò che era oscuro nella legge naturale, correggendo la nostra indifferenza e colpire maggiormente il nostro spirito e la nostra attenzione.
È ora facile comprendere cosa occorra imparare dalla Legge: Dio essendo nostro Creatore, è per noi sovrano e padre, e perciò dobbiamo rendergli gloria, venerazione, amore e timore. Inoltre non siamo liberi di seguire le concupiscenze del nostro spirito ove ci spinga, ma dipendiamo interamente da Dio e dobbiamo rivolgere la nostra attenzione unicamente alle cose che egli gradisce. Egli gradisce la giustizia e la dirittura, gli è invece odiosa l'iniquità.
Se non vogliamo allontanarci dal nostro Creatore con ingratitudine abominevole, dobbiamo amare la giustizia per tutta la vita e impegnarci in essa con assiduità. Se infatti gli tributiamo l'onore dovutogli, sostituendo la sua volontà alla nostra, non possiamo far questo nel modo dovuto se non osservando giustizia, santità e purezza.
L'uomo non può giustificarsi affermando di non avere la forza e di non essere altro che un debitore insolvente. La gloria di Dio non si può infatti commisurare alle nostre capacità, dato che, quali possiamo essere, egli permane sempre uguale a se stesso: amico della giustizia, nemico dell'iniquità; qualsiasi cosa ci chieda, dato che non può chiedere se non giustamente, siamo tenuti ad obbedire per obbligazione naturale. Se non lo facciamo, la colpa è nostra.
Il fatto di essere imprigionati dalla nostra cupidità, determinata dal peccato, e perciò privi della libertà di obbedire al Padre, non costituisce giustificazione; il male infatti è dentro di noi ed a noi deve imputarsi.
3. Giunti a questo punto, grazie all'insegnamento della Legge, dovremo, sotto la sua guida, scendere in noi stessi, ne trarremo queste due conclusioni. In primo luogo, paragonando la giustizia della Legge con la nostra vita, constateremo di non soddisfare la volontà di Dio e dunque di essere indegni di conservare il nostro posto tra le sue creature, ancor meno di essere considerati suoi figli. Poi, valutando le nostre forze, le dovremo ritenere non solo insufficienti all'adempimento della Legge, ma anzi, del tutto inesistenti.
Ne deriva sfiducia nelle nostre proprie forze, poi angoscia e trepidazione dell'animo. La coscienza non può affrontare il peso del peccato senza che immediatamente si profili il giudizio di Dio; e non si può percepire il giudizio di Dio senza essere presi dall'orrore della morte. Analogamente la coscienza, vincolata dall'esperienza della propria debolezza non può fare a meno di cadere nella sfiducia di se stessa. Entrambi questi sentimenti causano scoraggiamento ed umiliazione.
È così che l'uomo, atterrito dal pensiero della morte eterna che vede prossima a causa della propria ingiustizia, si volge infine alla misericordia di Dio come unico porto di salvezza; e sentendo di non poter pagare quanto deve alla Legge, disperando di se, prende fiato per domandare ed aspettare un aiuto esterno.
4. Ma il Signore non si limita ad additare la sua giustizia al rispetto, ma aggiunge promesse e minacce per condurre i nostri cuori ad amarla e ad odiare l'iniquità. La sola bellezza della virtù è insufficiente a smuovere il nostro intelletto incerto; il Padre pieno di bontà ha voluto condurci con la sua benignità ad amarlo e desiderarlo per la dolcezza del premio offertoci.
Egli dichiara dunque di voler premiare la virtù e ci assicura che non invano obbediremo ai suoi comandamenti. Ci comunica, d'altra parte, che l'ingiustizia gli è odiosa e non potrà sfuggire alla punizione, perché Egli ha deciso di tutelare la propria maestà disprezzata. E per incitarci in tutti i modi promette le benedizioni della vita presente e la beatitudine eterna a chi osserverà i suoi comandamenti; e d'altro lato minaccia i trasgressori di calamità attuali e di eterni tormenti mortali. La promessa: "Chi farà queste cose vivrà per esse ", (Le 18.5) e la corrispondente minaccia: "L'anima che avrà peccato, morirà " (Ez. 18.4.20) si riferiscono indubbiamente alla morte o all'immortalità futura, che mai avrà fine. Del resto, dovunque si menzionano la benevolenza o la collera del Signore si intende con la prima eternità di vita, con la seconda eterna perdizione.
Nella Legge è enumerata una lunga lista di benedizioni e maledizione presenti (Le 26.4; De 28.1). Le pene elencate sottolineano la purezza di Dio, che non può tollerare l'iniquità. D'altra parte le promesse dimostrano come egli ami la giustizia, dato che non la vuol lasciare senza premio. Vi è parimenti mostrata una straordinaria benignità; dato che noi, e tutto quanto ci appartiene, siamo in debito nei confronti della sua maestà, egli giustamente considera come debito quello che gli dobbiamo. Ora il pagamento di un tale debito non merita alcuna rimunerazione. Perciò offrendosi una ricompensa per quell'obbedienza che consideriamo come non dovuta e che tributiamo contro voglia, egli rinuncia, in realtà, ad un suo diritto.
Abbiamo già detto, almeno in parte e in parte diremo a suo tempo, quale vantaggio ci possano arrecare le promesse. Limitiamoci per ora a comprendere che nelle promesse della Legge è contenuto un singolare incoraggiamento alla giustizia, di modo che è impossibile vedere come Dio si compiaccia della nostra sottomissione. D'altra parte le sanzioni sottolineano la massima esecrazione dell'ingiustizia, onde il peccatore non si lasci blandire dalla dolcezza del peccato fino a dimenticare che la giustizia del legislatore è preparata per lui.
5. Il Signore, volendo fornire la norma della perfetta giustizia, ne ha ricondotto tutti gli elementi alla propria volontà; mostrando così di gradire massimamente l'obbedienza. Bisogna diligentemente notarlo, perché l'audacia e l'intemperanza dell'intelletto umano sono troppo inclini a escogitare nuovi onori e nuovi culti da rendergli per ottenerne la grazia. In tutto il genere umano si è sempre manifestata e si manifesta anche al presente una folle affettazione di sfrenata religiosità, radicata naturalmente nel nostro spirito. Gli uomini desiderano sempre elaborare qualche mezzo per ottenere giustizia senza ricorrere alla parola di Dio. Di conseguenza i comandamenti della Legge occupano il posto più basso tra quelle buone opere che godono della stima universale: mentre una moltitudine infinita di precetti umani occupa il primo posto e si trova in primo piano.
Mosè voleva frenare questa tendenza quando diceva al popolo, dopo la proclamazione della Legge: "Ascolta e prendi nota di quel che ti ordino affinché tu possa prosperare e i tuoi figliuoli dopo di te, se farete quel che è buono e ben accetto al tuo Dio " (De 12.28) , "Fai quello che ti ordino, senza aggiungervi né togliervi nulla,'. E in precedenza, dopo aver riconosciuto come saggezza ed intelligenza del popolo israelita, in confronto alle altre nazioni della terra, l'aver ricevuto dal Signore le leggi, la giustizia e le cerimonie, dice loro: "Custodisci con diligenza la tua anima e te stesso; non dimenticare le parole che i tuoi occhi hanno visto ed esse non cadano mai dal tuo cuore " (De 4.9).
Dio afferma che nella sua parola è contenuta la perfetta giustizia perché prevedeva che gli Israeliti, dopo aver ricevuto la Legge, non si sarebbero trattenuti dall'inventare nuovi culti, qualora non li avesse tenuti fermamente in pugno. Eppure non hanno saputo sottomettersi a questa tendenza così esplicitamente condannata. E noi? Siamo indubbiamente vincolati dalla stessa parola. È indubbio infatti che il Signore ha voluto attribuire per sempre alla Legge il valore di un perfetto insegnamento di giustizia. E tuttavia non siamo contenti e ci diamo attivamente da fare per rintracciare e inventare buone opere, le une appresso alle altre.
Il miglior rimedio contro questo vizio è di serbare nel cuore questo pensiero: la Legge ci è stata data dal Signore per insegnarci la giustizia perfetta e in essa non è proposta altra giustizia se non il conformarci e adeguarci alla volontà divina; invano dunque Inventiamo nuove opere per meritare la grazia di Dio. Il vero culto a Dio consiste nell'obbedienza; al contrario, l'applicarsi a buone opere all'infuori della Legge costituisce una intollerabile corruzione della vera e divina giustizia. Sant'Agostino ha ben ragione di definire l'obbedienza resa a Dio "madre e custode di ogni virtù "e talvolta "sorgente e radice di ogni bene ".
6. Quanto ho precedentemente insegnato sulla funzione della Legge, sarà confermato quando l'avremo spiegata. Ma prima di trattare ogni singolo articolo sarà meglio valutare il suo significato generale. Sia chiaro, in primo luogo, che la vita dell'uomo deve essere regolata dalla Legge non solo per quanto riguarda l'onesta esteriore ma anche la giustizia interiore e spirituale. Questo non si può certo negare, ma è tenuto in ben poca considerazione. E ciò avviene perché non si considera il legislatore, alla cui natura la Legge deve essere correlata.
Se qualche sovrano proibisse con un editto di vivere immoralmente, di rapinare o assassinare, chi si limitasse a desiderare di vivere immoralmente, rapinare od uccidere senza giungere a compiere il fatto o senza tentare di giungervi, non sarebbe considerato colpevole. Le provvidenze del legislatore terreno concernono solo l'onestà esteriore; i suoi ordinamenti sono dunque violati solo quando il male sia realmente compiuto.
Ma Dio, il cui occhio vede ogni cosa, non si limita all'apparenza esteriore del bene ma considera piuttosto la purezza del cuore; proibendo l'immoralità, l'omicidio e il furto, vieta ogni concupiscenza carnale, odio e desiderio dei beni altrui, come ogni inganno e tutto quel che vi assomiglia. Essendo legislatore spirituale non parla meno all'anima che al corpo. Per quanto concerne l'anima, l'ira e l'odio sono assassinio, la concupiscenza è furto, l'amore sregolato è immoralità.
Qualcuno potrebbe obiettare che anche le leggi umane concernono gli intendimenti e la volontà umana e non solo gli avvenimenti esterni. Lo riconosco: ma sempre sotto la luce della volontà che ne emerge. Le leggi considerano l'intenzione di ogni opera compiuta, ma non considerano i pensieri segreti. Chi dunque si astiene dalle trasgressioni esplicite avrà soddisfatto le leggi civili. Al contrario, essendo la Legge di Dio data per le nostre anime, se vogliamo osservarla sono le nostre anime che per prime devono esservi vincolate.
Ora la maggior parte degli uomini, anche quando non vuol lasciar trapelare la propria ribellione alla Legge, conforma in qualche modo i propri occhi, i propri piedi e le proprie mani e le altre parti del corpo all'osservanza dei suoi precetti; il cuore però rimane completamente estraneo all'obbedienza. Credono di essere a posto quando hanno nascosto agli uomini quel che è evidente a Dio. Sentono dire: "Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare ". Di conseguenza non sguainano la spada per uccidere, non frequentano prostitute, non mettono la mano sui beni altrui. Tutto questo va bene. Ma il loro cuore è pieno di omicidio e brucia di concupiscenza carnale, non sanno guardare i beni altrui se non con occhio torvo, divorandoli di invidia. Viene così a mancare loro ciò che è essenziale nella Legge. Donde nasce una tale stupidità, vi domando, se non dal fatto che dimenticano il Legislatore, e torcono la giustizia conformandola ai propri intendimenti.
Contro questa tesi san Paolo protesta chiaramente affermando: la Legge è spirituale (Ro 7.14). Con questo vuol dire che essa richiede non solo l'obbedienza dell'anima, dell'intelletto e della volontà ma anche una purezza angelica che, priva di ogni macchia carnale, sia interamente spirituale.
7. Interpretando in questo modo la Legge, non offriamo una interpretazione frutto di fantasia, ma seguiamo Cristo che ne è il miglior interprete. I Farisei avevano sparso tra il popolo una convinzione perversa, vale a dire che chi non commette una violazione esterna della Legge può essere considerato osservatore lodevole di questa. Cristo combatte questo errore affermando che lo sguardo impudico rivolto ad una donna è adulterio e tutti quelli che odiano il fratello sono omicidi (Mt. 5.27). Considera degni di condanna quanti abbiano semplicemente concepita l'ira nel proprio cuore, colpevoli di fronte il Concistoro quelli che manifestano il proprio risentimento; colpevoli della geenna infuocata quelli che avranno rivelato esplicitamente, con offese, il loro malanimo.
Coloro che non hanno capito questo, hanno visto in Gesù un "secondo Mosè "che reca la "Legge evangelica "per supplire ai difetti della "Legge mosaica ". È divenuta corrente l'affermazione che la perfezione della Legge evangelica è di gran lunga maggiore di quella dell'antica Legge : Si tratta di un errore gravissimo. Quando riassumeremo i comandamenti di Mosè, vedremo dalle sue stesse parole che questa interpretazione reca ingiuria alla Legge di Dio. Inoltre da questa affermazione conseguirebbe che la santità degli antichi Padri è solo ipocrisia. Infine questo ci distrarrebbe dalla regola unica e perpetua della giustizia che in quella occasione Dio ha dato.
L'errore è facilmente refutato, queste persone hanno pensato che Cristo aggiungesse alla Legge, laddove invece la ricostituiva nella sua integrità, purgandola cioè delle menzogne e del lievito dei Farisei, da cui essa era stata sporcata e oscurata.
8. In secondo luogo dobbiamo osservare che i comandamenti di Dio hanno un contenuto che va oltre la formulazione letterale. Bisogna però guardarci dall'attribuire loro un significato che a noi sembri giusto ma torcendoli qua e là a nostro piacimento. Alcuni si prendono questa libertà e recano offesa all'autorità della Legge, quasi fosse incerta e si dovesse disperare di raggiungere una retta comprensione. Bisogna dunque trovare una via che ci conduca, se è possibile, in modo sicuro e senza incertezza alla volontà di Dio; vale a dire, occorre essere vigili nell'estendere la spiegazione oltre la lettera, evitando che diventi una aggiunta alla Legge di Dio, una glossa umana, ma ci si attenga al significato genuino voluto dal legislatore, esponendolo fedelmente.
È noto certamente che in tutti i comandamenti una parte è presa per il tutto; chi dunque si volesse limitare al significato letterale, dovrebbe essere deriso. La spiegazione della Legge, anche la più sobria, va al di là delle parole; ma non è chiaro fin dove possa andare se non si stabilisce una norma precisa.
Considero questa la migliore: ricercare le motivazioni della norma stessa; vale a dire considerare il fine per cui ogni singolo comandamento ci è stato dato da Dio. Esempio: ogni comandamento e dato per ordinare o per proibire. Avremo piena comprensione dell'uno e dell'altro aspetto considerando la motivazione o il fine cui tende. Il fine del quinto comandamento è che si onori quanti Dio ha voluti rivestire di onore: la sostanza sarà che Dio desidera che onoriamo quelli cui ha dato una qualche dignità; e che il disprezzo e l'insolenza nei loro riguardi gli è sgradita. La motivazione del primo comandamento è che Dio sia onorato: la sostanza sarà che la vera pietà è gradita a Dio, vale a dire l'onore che rendiamo alla sua maestà; al contrario l'empietà gli è abominevole. Bisogna così considerare il problema affrontato da ogni comandamento; indi cercarne il fine, per scoprire quel che il legislatore considera essergli gradito o sgradito.
Successivamente bisogna dedurre una motivazione inversa a quella espressa dal comandamento stesso, in questo modo: Se questo piace a Dio, il contrario gli dispiace. Se quello gli dispiace, questo gli piace. Se ordina questo, vieta il contrario. Se vieta questo, ordina il contrario.
9. Quanto stiamo dicendo ora, brevemente, può apparire oscuro, ma risulterà più chiaro nell'applicazione pratica quando illustreremo i comandamenti. Sia sufficiente l'aver fatto questo cenno iniziale, dobbiamo però sottolineare l'ultimo punto esposto, che rischierebbe di non essere compreso e di sembrare irragionevole.
Similmente l'opinione corrente riconosce senz'altro che quando si vieta il male, si ordina il bene corrispondente. È cosa normale che quando si condannano i vizi si raccomandino le virtù. Io però postulo qualcosa di più di quanto si intende comune mente con questo riconoscimento. Per virtù contraria al vizio essi intendono l'astenersi dal vizio: noi andiamo più in là affermando che si tratta di fare il contrario del vizio. Lo si vedrà meglio facendo un esempio. Nel comandamento: non uccidere, gli uomini vedono comunemente la richiesta di astenersi da ogni azione malvagia e da ogni desiderio di malfare; affermo che bisogna vedere di più, bisogna includervi anche l'aiuto per conservare la vita del nostro prossimo con tutti i mezzi a noi possibili
Affinché questo non sembri ingiustificato, dimostrerò la mia affermazione. Il Signore ci proibisce di ferire ed oltraggiare il nostro prossimo perché vuole che la sua vita ci sia cara e preziosa; egli richiede dunque anche i servizi della carità che possono conservarla. Si può così vedere come il fine del comandamento ci insegni quel che ci è comandato o proibito di fare.
10. Qualora si domandi perché il Signore abbia voluto esprimere solo a metà la sua volontà, senza esporla chiaramente, vi sono parecchie risposte. Una mi pare soddisfacente più di tutte: dato che la carne si sforza sempre di mascherare e nascondere con futili pretesti la turpitudine del proprio peccato che sarebbe altrimenti evidente, Dio ha voluto indicare come esempio la forma più grossolana ed estrema di ogni singolo peccato, onde il nostro stesso udito ne avesse orrore e ci facesse detestare il peccato con slancio. A falsare la nostra valutazione dei vizi è infatti spesso il fatto che noi li sminuiamo quando non sono del tutto evidenti. Il Signore ci libera da questo inganno e ci abitua a ricondurre ogni peccato ad un tipo preciso, per poter meglio intendere l'orrore che dobbiamo averne.
Esempio: l'odio o la collera non sembrano essere peccati così esecrabili, se li si indica con il loro nome. Ma quando il Signore li proibisce definendoli "omicidio ", comprendiamo meglio quanto li aborra, dato che li definisce con un nome così orribile. Essendo messi così in guardia dal giudizio di Dio, impariamo a valutare meglio la gravità di colpe che prima ci sembravano leggere.
11. In terzo luogo dobbiamo considerare il significato della divisione della Legge in due tavole: ogni persona di buon senso può giudicare che non senza motivo se ne fa così spesso menzione nella Scrittura. La ragione è molto chiara e non dà adito a dubbi. Il Signore, proponendosi di insegnare tutta la giustizia nella sua Legge, l'ha divisa in modo da attribuire la prima parte ai doveri di cui gli siamo debitori, al fine di onorare la sua maestà; la seconda ai doveri verso il prossimo, secondo carità.
Il fondamento della giustizia è costituito indubbiamente dall'onorare Dio; se questo vien meno, tutti gli altri elementi sono dislocati come macerie di un edificio crollato. Quale giustizia sarebbe, infatti, il non nuocere al prossimo con ladrocini e rapine e intanto strappare in modo sacrilego a Dio la maestà della sua gloria? Il non macchiare il nostro corpo con l'impurità e l'insozzare il nome di Dio con bestemmie? Il non colpire gli uomini e cercare di spegnere il ricordo di Dio? Invano pretenderemmo giustizia senza religione: sarebbe come ammirare un bel corpo senza testa! A dire il vero, anzi, la religione non è solo il capo della giustizia e della virtù, ma ne è per così dire l'anima che le dà forza. Mai gli uomini rispetteranno la giustizia e l'amore tra di loro, senza il timore di Dio.
Definiamo dunque il servire Dio: "principio e fondamento della giustizia ", senza di esso infatti tutto quello che gli uomini possono escogitare per vivere rettamente, nella continenza e nella temperanza, è vano e futile di fronte a Dio. Lo definiamo anche: "sorgente e spirito della giustizia "perché gli uomini temendo Dio, giudice del bene e del male, sono istruiti a vivere puramente e rettamente.
Il Signore dunque nella prima Tavola ci educa alla pietà e alla religione, in vista di rendere onore alla sua maestà. Nella seconda stabilisce come dobbiamo comportarci tra di noi, considerando il timore che gli portiamo. Per questa ragione il Signore Gesù ha riassunto tutta la Legge, secondo quanto riportano gli evangelisti, in due articoli, cioè: Amiamo Dio con tutto il nostro cuore, con tutta la nostra anima e con tutte le nostre forze; amiamo il nostro prossimo come noi stessi (Mt. 22.37 ; Lu 10.27). Le due parti, che riassumono tutta la Legge, hanno secondo lui l'una per oggetto Dio e l'altra gli uomini.
12. Quantunque la Legge sia pienamente espressa in questi due punti, tuttavia il Signore, allo scopo di eliminare ogni equivoco, ha voluto esporre in modo più ampio e semplice, in dieci espressioni, quanto si riferisce al timore, all'amore ed all'onore che sono dovuti alla sua divinità e alla carità che ci chiede di avere, per amor suo, nei confronti del nostro prossimo. Non è dunque inutile puntualizzare la divisione dei comandamenti purché ci si ricordi che in questa materia ognuno è libero di giudicare liberamente e non solleviamo, pertanto, polemiche se qualcuno non concorda con le nostre tesi. Dico questo perché non ci si stupisca della suddivisione che adotterò considerandola una novità.
Riguardo al numero dei comandamenti, non sussiste alcun dubbio dato che il Signore ha eliminato ogni possibile contestazione con la sua parola. La questione sorge riguardo alla loro suddivisione. C'è chi li divide in modo che vi siano tre comandamenti nella prima Tavola e sette nella seconda, cancellando dal numero dei comandamenti quello relativo alle immagini o includendolo nel primo, mentre il Signore lo ha posto come comandamento a se stante. In questo modo viene, inoltre, diviso in modo sconsiderato il decimo comandamento che vieta di concupire i beni del prossimo. Si aggiunga inoltre che questa divisione, come vedremo appresso, era sconosciuta alla Chiesa primitiva.
Altri invece mettono quattro articoli nella prima Tavola, come facciamo noi, ma considerano il primo comandamento solo una promessa, priva del carattere di comandamento. Per parte mia non posso prendere le dieci parole dette da Mosè altrimenti che come dieci comandamenti, a meno di essere convinto del contrario da ragioni evidenti, mi sembra inoltre che li possiamo indicare con il dito nel loro ordine. Lasciando dunque agli altri la libertà di pensare quel che vogliono, mi atterrò a quanto mi sembra più probabile: vale a dire che la frase da loro considerata come primo comandamento, serve da proemio a tutta la Legge; i dieci comandamenti seguono, quattro nella prima Tavola e sei nella seconda, secondo l'ordine che si vorrà scegliere.
Questa divisione è accolta da Origene senza difficoltà, come cosa comunemente accettata nel suo tempo. Anche sant'Agostino la accetta, scrivendo a Bonifacio. È vero che in un altro passo preferisce la prima divisione, ma in questo caso la sua argomentazione è debole: se si mettessero tre comandamenti nella prima Tavola, essa rappresenterebbe la Trinità. In quello stesso passo però non nasconde la sua preferenza per la divisione da noi seguita. Vi è anche un altro Padre antico che concorda con la nostra opinione, cioè l'autore degli incompiuti Commentari su san Matteo.
Giuseppe attribuisce cinque comandamenti ad ogni Tavola, senza dubbio rispecchiando l'opinione corrente del suo tempo. Questo è contraddetto dalla ragione, dato che sarebbe annullata la differenza tra l'onore di Dio e la carità verso il prossimo; inoltre Gesù Cristo si esprime altrimenti: egli infatti include il precetto dell'onore da rivolgere al padre e alla madre nella seconda Tavola (Mt. 19.19).
Ascoltiamo ora Dio stesso che parla.
IL PRIMO COMANDAMENTO
Io sono l'Eterno, il tuo Dio, che ti ha tratto dalla terra d'Egitto, dalla casa di servitù. Non avrai dèi stranieri nel mio cospetto.
13. POCO importa se si considera la prima frase parte del primo comandamento o a se stante: purché comprendiamo trattarsi di un proemio a tutta la Legge.
In primo luogo quando si promulga una legge bisogna provvedere a che non sia abrogata per disprezzo o disinteresse. Perciò il Signore, fin dal principio, pone rimedio a questo pericolo, preoccupandosi di tutelare la maestà della Legge. Lo fa sulla base di tre motivi. Attribuisce a se il diritto e la forza di comandare, costringendo così il popolo eletto alla necessità di obbedire. In seguito promette la sua grazia per condurre i suoi credenti con dolcezza all'obbedienza della sua volontà. Infine ricorda il bene che aveva fatto agli Ebrei per rimproverarli d'ingratitudine se non risponderanno alla liberalità esercitata nei loro riguardi.
Con il nome Eterno è indicato l'imperio e la sovranità legittima che ha su di noi. Se tutte le cose vengono da lui e sussistono in lui, è giusto che vengano riferite a lui, come dice san Paolo (Ro 11.36). Con questa parola dunque ci è mostrata la necessita di sottometterci al gioco del Signore, dato che sarebbe mostruoso sottrarci al governo di colui senza il quale non possiamo esistere.
14. Dopo aver indicato il diritto che ha di comandare e di pretendere l'obbedienza, ci conduce anche con la dolcezza dichiarando di essere l'Iddio della sua Chiesa; onde non si creda che vuole costringerci solo con la forza. In questa locuzione vi è una corrispondenza reciproca espressa nella promessa: "Io sarò loro Dio ed essi saranno il mio popolo" (Gr. 31.33). In base a questa affermazione Gesù Cristo dimostra che Abramo, Isacco e Giacobbe hanno ottenuto salvezza e vita eterna: infatti Dio aveva loro promesso di essere loro Dio (Mt. 22.32). Questa parola dunque equivale a: Io vi ho eletto come mio popolo, non solo per beneficarvi nella vita presente ma per condurvi all'eterna beatitudine del mio regno.
Quale sia il fine di questa grazia, è esposto in molti passi. Quando il nostro Signore ci chiama nella comunità del suo popolo, ci elegge, come dice Mosè, per santificarci alla sua gloria e affinché osserviamo i suoi comandamenti (De 7.6; 14.2; 26.18). Di qui l'esortazione del Signore al suo popolo: Siate santi perché io sono santo (Le 19.2). Di qui il rimprovero, per bocca del Profeta: "Il figlio onora suo padre, il servitore il suo padrone. Se sono vostro padrone, dov'è il timore? Se sono vostro padre, dov'è l'amore? " (Ma.1.6).
15. Successivamente espone il bene con cui ha beneficiato i suoi servitori; questo fatto deve commuoverli ancor più, l'ingratitudine è infatti il crimine più odioso di tutti. Ricorda al popolo di Israele l'atto benefico compiuto in suo favore, così generoso e mirabile da dover essere oggetto di perenne ricordo. La menzione ne era opportuna al momento della proclamazione della Legge. Il Signore vuole così indicare di averli liberati, perché lo riconoscano autore della loro libertà, tributandogli onore e obbedienza.
Quando similmente vuole chiamarci al suo servizio, usa attribuirsi alcuni titoli con cui si distingue dagli idoli pagani. Come ho già detto noi siamo così portati all'errore e insieme così temerari, che appena ci si parla di Dio la nostra mente non può trattenersi dallo scivolare in qualche assurda speculazione. Per rimediarvi, il Signore esprime la propria divinità con alcuni titoli e in questo modo ci rinchiude entro dei limiti, per così dire, onde non andiamo vagando qua e là e non costruiamo temerariamente qualche nuovo dio, abbandonando colui che è il solo Dio vivente.
Per questo motivo i profeti, per descriverlo e farlo conoscere adeguatamente, presentano sempre i segni e le note caratteristiche con cui egli si era manifestato al popolo d'Israele. Quando è chiamato l'Iddio d'Abramo o d'Israele (Es. 3.6) e quando è seduto nel suo tempio di Gerusalemme in mezzo ai cherubini (Am 1.2; Abacuc 2.28; Sl. 80.2; 99.1; Is. 37.16) , queste espressioni non intendono vincolarlo ad un luogo o ad un popolo, ma servono ad orientare il pensiero dei credenti verso quel Dio unico che ha espresso se stesso nell'alleanza fatta con il popolo d'Israele, di sorta che non è lecito volgere altrove la mente per cercarlo. Tuttavia è chiaro che la specifica menzione della redenzione ha lo scopo di invitare gli Ebrei a darsi più alacremente al servizio di Dio, dato che egli li ha riscattati e li tiene giustamente in suo potere.
Non si pensi che questo non ci concerne: la servitù d'Egitto del popolo d'Israele deve essere considerata una immagine della servitù spirituale in cui tutti siamo detenuti fin quando il Signore non ci liberi con la sua mano potente e ci trasferisca nel regno della libertà. Così come anticamente ha voluto risollevare la sua Chiesa in Israele ed ha liberato il popolo dalla crudele schiavitù di Faraone che lo opprimeva, nello stesso modo oggi libera i suoi dalla triste schiavitù del Diavolo, simboleggiata dalla cattività fisica di Israele.
Non v'è dunque creatura che non debba sentirsi condotta a prestare ascolto a questa Legge in quanto procede dal sovrano Signore, dal quale hanno origine tutte le cose e al quale necessariamente tendono tutti i fini. Anzi tutti devono essere stimolati ad accogliere questo legislatore, sapendosi eletti da lui per osservare i suoi comandamenti, aspettandosi dalla sua grazia non solo tutti i beni temporali ma anche la gloria della vita immortale.
Infine dobbiamo essere spinti ad obbedire al nostro Dio dal pensiero che la sua misericordia e forza ci hanno liberato dal baratro infernale.
16. Dopo aver fondato e stabilito l'autorità della sua Legge, formula il primo comandamento: Non avere dèi stranieri nel mio cospetto.
La sua intenzione è questa: lasciare solo a Dio la preminenza, perché egli vuole essere il solo ad esercitare il suo diritto sul popolo. Quindi vuole che ogni empietà e superstizione, che sminuiscono ed oscurano la gloria della sua divinità, siano evitate da noi. E per lo stesso motivo vuol essere onorato da noi con sentimento di pietà autentico. La semplicità stessa delle parole lo indica. Non possiamo averlo quale nostro Dio senza attribuirgli quanto gli è proprio. Perciò se ci vieta di avere dèi stranieri, vuole significare che non dobbiamo trasferire altrove quel che gli appartiene.
Quel che dobbiamo a Dio, è illimitato; tuttavia possiamo suddividerlo in quattro punti, vale a dire: l'adorazione, che comporta il servizio spirituale della coscienza, la fiducia, l'invocazione e l'azione di grazie.
Definisco adorazione la venerazione che rende a Dio la creatura sottomettendosi alla sua grandezza. Non è dunque senza motivo che considero come parte dell'adorazione l'onore che gli rendiamo sottomettendoci alla Legge: è un omaggio spirituale resogli come re sovrano, dominatore delle nostre anime.
La fiducia è la sicurezza interiore che ci viene dal fatto di conoscerlo rettamente: attribuendogli ogni sapienza, giustizia, bontà, virtù e verità sappiamo che la nostra felicità consiste nell'essere in relazione con lui.
Invocazione è il ricorso dell'anima nostra a lui come alla speranza unica quando le necessità urgono. Azione di grazie è la riconoscenza con cui gli rendiamo lode per tutti i beni.
Dio non può sopportare che tutto questo sia attribuito ad altri e vuole gli sia reso interamente. Non è sufficiente il non venerare un altro dio; dobbiamo fondarci unicamente su lui. Esistono uomini malvagi che preferiscono deridere tutte le religioni. Se al contrario vogliamo osservare scrupolosamente questo comandamento, bisogna che la vera religione abbia il sopravvento e guidi le nostre anime a dedicarsi completamente a Dio e, dopo averlo conosciuto, le induca a onorarne la maestà, porre in lui la propria speranza, richiedere il suo aiuto, riconoscere tutte le sue grazie e magnificare tutte le sue opere; infine, a tendere a lui come al loro unico fine.
Asteniamoci oltre a questo da ogni malvagia superstizione, onde le nostre anime non siano trasportate qua e là verso altri dèi. Se attenendoci ad un solo Dio troviamo in lui l'appagamento, ricordiamoci, come abbiamo già detto, che dobbiamo eliminare tutti gli dèi inventati: non è lecito spartire il culto riservato al solo Dio perché la sua gloria deve restargli intera, onde quel che gli è proprio non gli sia sottratto.
Aggiunge che "non si devono avere altri dèi nel suo cospetto ", per sottolineare la gravità del crimine. Non è infatti cosa da poco mettere al suo posto gli idoli da noi fabbricati, quasi per disprezzarlo e muoverlo alla gelosia; come una donna impudica che, per tormentare il cuore del marito, fa le moine all'amante davanti agli occhi di lui. Dio, con la grazia dimostrata, ha offerto ampie garanzie di voler proteggere il popolo eletto, stornandolo da ogni errore; quindi dichiara che non gli possono sfuggire idolatria e superstizione qualora si manifestino tra loro, dato che vive in mezzo a quelli che ha preso sotto la sua protezione. L'empietà trabocca con sempre maggior audacia, pensando poter ingannare Dio mascherandosi con sotterfugi, ma il Signore dichiara che gli è noto tutto quello che noi macchiniamo e meditiamo.
Se dunque vogliamo mostrare la purezza della nostra fede in Dio, la nostra coscienza deve essere pura da ogni malvagio pensiero e non accogliere neppure l'impulso a lasciarsi andare alla superstizione e all'idolatria. Il Signore non pretende solo che la sua gloria sia garantita da un riconoscimento esteriore; ma lo sia anche davanti ai suoi occhi, occhi che tutto vedono e tutto scoprono.
IL SECONDO COMANDAMENTO
Non ti farai immagine scolpita né effige alcuna delle cose che sono nell'alto dei cieli né qui sulla terra né nelle acque sotto la terra. Non tributerai loro né adorazione né onore.
17. Mentre nel precedente comandamento Dio ha dichiarato di essere l'unico vero Dio, all'infuori del quale non se ne debbono immaginare altri, ora mostra più chiaramente come deve essere onorato, onde non ci fabbrichiamo di lui una immagine carnale.
L'intenzione del comandamento è mostrare che Dio vuole che il legittimo onore dovutogli non sia profanato da pratiche superstiziose. Vuole insomma trattenerci e preservarci da prassi carnali che la nostra mente inventa, quando concepisce Dio secondo la propria ignoranza, e di conseguenza ci educa al culto legittimo che gli è dovuto, vale a dire al culto spirituale da lui istituito. Denuncia l'errore più evidente in questo campo: l'idolatria esteriore.
Tuttavia il comandamento si compone di due parti. La prima reprime la nostra presunzione che vorrebbe assoggettare ai nostri sentimenti quel Dio incomprensibile e raffigurarlo con qualche immagine. La seconda parte vieta di fare dell'adorazione delle immagini un elemento della religione. Accenna brevemente ai tipi dell'idolatria pagana. Dicendo "Le cose che sono nei cieli ", indica il sole, la luna e tutte le stelle, fors'anche gli uccelli, come si deduce dal quarto capitolo del (De 4.17-19) dove il pensiero è esplicato. Tralascerei questo dettaglio, non dovesse correggersi l'errore di alcuni ignoranti che riferiscono questo passo agli angeli.
Tralascio di illustrare le parole che seguono immediatamente, dato che sono sufficientemente evidenti. Già nel primo libro abbiamo chiaramente insegnato che tutte le forme visibili di Dio che l'uomo costruisce, sono in radicale contraddizione con la sua natura: di sorta che non appena si propone un idolo, la vera religione è corrotta e imbastardita.
18. La minaccia che segue deve correggere la nostra durezza di cuore. Egli dice: Sono l'Eterno vostro Dio, Dio forte e geloso, che punisce l'iniquità dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione d'i quelli che odiano il mio nome, e che ha misericordia per mille generazioni di coloro che mi amano ed osservano i miei comandamenti.
È come se dicesse che dobbiamo affidarci a lui solo. E per indurci a farlo, ci mostra la sua potenza che non può essere sprezzata o sminuita. È adoperata qui la parola El che significa Dio; ma è chiamato così a causa della sua forza, perciò non ho esitato ad adoperare il termine "forte "o almeno ad aggiungerlo al primo, per meglio esprimere il significato.
Poi si definisce "geloso "per indicare che non può tollerare di essere posto accanto ad altri.
In terzo luogo dichiara che vendicherà la propria maestà e la propria gloria, se qualcuno vorrà trasferirle alle creature o agli idoli, e non sarà vendetta da prendere alla leggera ma si estenderà sui figli, nipoti e pronipoti che avranno seguito l'iniquità dei loro predecessori; come d'altra parte promette la sua misericordia e generosità a mille generazioni di quelli che l'ameranno e osserveranno la sua Legge.
Non è fatto nuovo che il Signore assuma nella relazione con noi l'atteggiamento di un marito: l'unione con cui ci unisce a se ricevendoci in seno alla Chiesa, è come un matrimonio spirituale che richiede reciproca fedeltà. Svolgendo in tutto e per tutto la funzione di un marito fedele, chiede che da parte nostra gli serbiamo amore e castità matrimoniale, vale a dire che le nostre anime non siano abbandonate al Diavolo e alle concupiscenze della carne, il che sarebbe una specie di adulterio.
Per questo motivo, quando rimprovera gli Ebrei, si lamenta che con le loro infedeltà hanno violato la legge matrimoniale (Gr. 3; Ho 2). Come un buon marito, fedele e leale, si adira qualora veda la propria moglie volgersi verso un amante, così il Signore, che ci ha sposato nella verità, dichiara di provare una violentissima gelosia ogniqualvolta, disprezzando la castità del matrimonio, ci contaminiamo con malvage concupiscenze e trasferiamo ad altri la gloria, che doveva essergli riservata intera mente, oppure la macchiamo con qualche superstizione. Così facendo, noi rompiamo la fede datagli nel matrimonio e insieme macchiamo la nostra anima di adulterio.
19. Bisogna considerare ora cosa intenda dire minacciando di "punire l'iniquità dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione ". Punire un innocente per il peccato altrui non è compatibile con l'equità della giustizia divina: e il Signore stesso dichiara altrove di non volere che il figlio sia punito per l'iniquità del padre (Ez. 18.20). Tuttavia ripete spesso che i peccati dei padri saranno puniti nei figli. Mosè dice spesso: "Signore, Signore che paghi il salario dell'iniquità dei padri ai figli! " (Nu. 14.18). Così Geremia: "Signore che fai misericordia per mille generazioni e colpisci l'iniquità dei padri sui figli " (Gr. 32.18).
Alcuni, incapaci di risolvere questa difficoltà, vedono in queste minacce una allusione a pene temporali dicendo che non è male che i figli soffrano per i loro padri e spesso questo è salutare. Questo è vero. Isaia, infatti, dichiarava al re Ezechia che a causa dei peccati commessi il regno sarebbe stato strappato ai suoi figli, che sarebbero stati deportati in un paese straniero (Is. 39.17). Similmente le famiglie di Faraone e di Abimelec sono state afflitte a causa dell'ingiuria recata ad Abramo (Ge 12.17; 20.3); e non mancano altri esempi del genere. Ma non si risolve in questo modo il problema; si tratta di una scappatoia, non di un'esegesi del passo.
In realtà il Signore annuncia qui una punizione sì grave da non poter essere limitata alla vita presente. Bisogna intendere la frase come una dichiarazione che la maledizione di Dio cade non solo sull'iniquo ma si estende a tutta la sua discendenza. Se così è, ci si può aspettare solo che il padre, privato dello Spirito di Dio, viva malamente, il figlio, ugualmente abbandonato da Dio per il peccato del padre, segua la stessa via di perdizione, che il nipote e gli altri successori, esecrabile discendenza di uno stesso malvagio seme, si precipitino in rovina dietro a loro.
20. Domandiamoci in primo luogo se queste vendette sono in contrasto con la giustizia divina. Dato che tutta la natura umana è condannabile, è certo che la rovina è preparata per coloro ai quali il Signore non comunica la sua grazia: essi periscono per la propria iniquità e non a causa di un odio malvagio da parte di Dio né possono lamentarsi di non essere aiutati da Dio a raggiungere la salvezza come gli altri. Se dunque questa punizione colpisce i malvagi per la loro iniquità e le loro case sono lungamente private della grazia di Dio, chi potrebbe rimproverarne Dio?
Qualcuno però dirà: Il Signore, al contrario, afferma che il figlio non porterà la pena per il peccato del padre (Ez. 18.20). Esaminiamo attentamente quel testo. Gli Israeliti, oppressi lungamente da molte sventure, avevano un proverbio comune: "I padri hanno mangiato l'uva acerba e ai figli s'allegano i denti ". Con questo intendevano dire che i loro genitori avevano commesso le mancanze per cui essi sopportavano tanti mali, senza averli meritati; consideravano che Dio fosse mosso da collera eccessiva più che da giusta severità. Il Profeta replica che non è vero: essi scontano le mancanze proprie perché non è compatibile con la giustizio divina che il figlio innocente e giusto sia punito per gli errori del padre; ne questo è detto dal comandamento. Quando il Signore sottrae alla casa degli iniqui la propria grazia, la luce della sua verità e tutti gli aiuti per la salvezza, di modo che i figli, abbandonati alla cecità, seguono la strada dei loro predecessori, in questo caso si può dire che essi sopportano la maledizione di Dio per i misfatti dei loro padri. L'essere puniti con calamità temporali o morte eterna, non avviene però a causa dei peccati altrui, ma dei propri.
21. D'altra parte è offerta la promessa che "Dio estenderà la sua misericordia su mille generazioni di quelli che l'amano ". Essa è ripetuta spesso nella Scrittura ed è inserita nel patto solenne che Dio stringe con la sua Chiesa: "Sarò il tuo Dio e il Dio della tua discendenza dopo di te " (Ge 17.7). Di conseguenza Salomone dice che dopo la morte dei giusti i loro figli saranno beati (Pr 20.7) non solo a causa del buon nutrimento e dell'educazione, che per parte sua aiuta molto il benessere dell'uomo, ma anche per questa benedizione promessa da Dio ai suoi servitori di spargere la sua grazia in perpetuo sulle loro famiglie. Questo reca una straordinaria consolazione ai credenti e deve spaventare gli iniqui. Se il ricordo tanto della giustizia quanto dell'iniquità ha una tale forza presso Dio, dopo la morte dell'uomo, da estendere la benedizione o la maledizione fino alla posterità, a maggior ragione chi avrà vissuto rettamente sarà benedetto senza limiti da Dio e chi avrà vissuto malamente sarà maledetto.
Questo non è smentito dal fatto che talvolta da una stirpe di malvagi escano dei buoni; e al contrario che da una stirpe di credenti escano dei malvagi. Il legislatore celeste non ha qui voluto stabilire una norma assoluta che deroghi alla sua elezione. È infatti sufficiente a consolare il giusto e spaventare il peccatore che questa dichiarazione non sia vana né futile, anche se non sempre si verifica. Come le pene temporali che Dio infligge ad alcuni sono testimonianze della sua collera contro il peccato e segni del giudizio futuro che cadrà su tutti i peccatori, sebbene molti nella vita presente rimangano impuniti, così il Signore, dando un esempio di questa benedizione nel continuare a effondere la sua bontà sui figli dei credenti a motivo dei loro padri, offre una testimonianza della permanenza della sua misericordia sui suoi servitori. Quando al contrario persegue l'iniquità dal padre al figlio, mostra quale rigore di giudizio attende gli iniqui con i loro peccati: questo e specialmente sottolineato qui in questa frase.
Inoltre ha voluto additare, come per inciso, la grandezza della sua misericordia, estendendola a mille generazioni e limitando a quattro generazioni la sua vendetta.
IL TERZO COMANDAMENTO
Non usare invano il nome dell'Eterno il tuo Dio.
22. L'intenzione del comandamento è questa: il Signore vuole che la maestà del suo nome sia per noi santa. La sostanza è questa: tale maestà non deve essere profanata da noi con di sprezzo o irriverenza. A questo divieto corrisponde l'aspetto affermativo del comandamento che ci invita a tenere questa maestà in onore eccezionale. Dobbiamo dunque essere istruiti a pensare e parlare, col cuore o con la bocca, in modo sobrio e rispettoso di Dio e dei suoi misteri, e considerando le sue opere, non concepire nulla se non ne esalti la gloria.
Bisogna attentamente osservare questi tre punti. Tutto quel che il nostro spirito concepisce di Dio e tutto quel che la nostra lingua ne dice deve essere adeguato alla sua eccellenza e alla santità del suo nome e deve tendere ad esaltarne la grandezza.
In secondo luogo non dobbiamo temerariamente approfittare della sua santa parola né adoperare i suoi misteri per servire la nostra avarizia, la nostra ambizione o le nostre follie, Poiché la dignità del suo nome è impressa nella sua parola e nei suoi misteri, dobbiamo sempre onorarli e rispettarli.
Infine non dobbiamo criticare ne calunniare le sue opere, a somiglianza di certi malvagi che ne parlano in modo offensivo: dobbiamo riconoscere sapienza, giustizia e virtù in tutto quello che sappiamo essere opera sua.
Questo significa «santificare il nome di Dio». Quando si agisce altrimenti, lo si macchia indegnamente perché lo si adopera illegittimamente: e quand'anche non vi fosse altro male, se ne sminuisce la dignità e lo si rende spregevole.
Se è male servirsi con leggerezza del nome di Dio, ancor più grave sarà il farne un uso completamente malvagio utilizzandolo in sortilegi, negromanzia, invocazioni illecite e in questo genere di cose.
Tuttavia qui si parla in modo specifico del giuramento, nel quale è particolarmente detestabile l'abuso del nome di Dio; si vuole cioè suscitare un orrore ancor maggiore per tutte le altre forme di profanazione. Dio si riferisce qui all'onore e alla sottomissione che gli dobbiamo e non alla lealtà nel giurare tra noi per non ingannare nessuno; infatti successivamente, nella seconda Tavola, condannerà gli spergiuri e le false testimonianze con cui gli uomini si ingannano vicendevolmente, Sarebbe una finzione superflua quindi se qui parlasse del dovere di carità. Bisogna distinguere, perché, come abbiamo detto, Dio di proposito ha distribuito la sua Legge in due Tavole. In questo passo: tratta dei propri diritti e vuole che sia rispettata la santità cui - il suo nome ha diritto, e non affronta ancora il problema della relazione che gli uomini hanno reciprocamente con i giuramenti.
23. Bisogna prima di tutto intendere cosa sia un "giuramento". Giuramento è un riferimento a Dio in vista di confermare la verità della nostra parola. Le bestemmie esplicite che hanno lo scopo di insultare Dio, non son degne di essere chiamate giuramenti.
In numerosi passi della Scrittura ci vien mostrato che questo attestato, quando è correttamente pronunciato, è un modo di glorificare Dio. Così quando Isaia dice che gli Assiri e gli Egiziani saranno ricevuti nella Chiesa di Dio: "Parleranno la lingua di Canaan" egli dice "giureranno nel nome del Signore" (Is. 19:18), vale a dire: giurando nel nome del Signore, manifesteranno di considerarlo il proprio Dio. Analogamente quando descrive il propagarsi del regno di Dio dice: "Chiunque domanderà prosperità, la domanderà nel nome di Dio, e chi giurerà, giurerà per il vero Dio"(Is. 65:16). Così Geremia: "Se i Dottori insegnano al mio popolo a giurare nel mio nome, come gli hanno insegnato a giurare per Baal, li farò prosperare nella mia casa (Ge. 12:16).
Giustamente si dice che invocando, nella nostra testimonianza il nome di Dio, manifestiamo la nostra fede in lui. Lo riconosciamo infatti quale verità eterna ed immutabile, visto che non solo lo invochiamo come testimone autentico della verità ma quale unico custode di essa, capace di mettere in luce le cose nascoste e unico conoscitore dei cuori. Prendiamo Dio a testimonio quando le testimonianze umane vengono meno oppure quando si tratta di affermare ciò che è nascosto nella coscienza.
Per questo motivo il Signore si adira profondamente nei riguardi di quanti giurano per gli dèi stranieri e considera questa forma di giuramento come un segno di defezione nei suoi con fronti. Dice infatti: "I tuoi figli mi hanno abbandonato e giurano per coloro che non sono dèi  (Gr. 5:7). Inoltre rende evidente con la gravità della pena quanto esecrabile sia questo peccato: infatti dice di voler distruggere tutti quelli che giurano nel nome di Dio e nel nome del proprio idolo (So. 1:5).
24. Poiché il Signore vuole che l'onore del suo nome sia esaltato nei nostri giuramenti, dobbiamo vigilare su noi stessi per non sprezzarlo o sminuirlo anziché onorarlo. Spergiurare nel suo nome è orribile insulto, definito "profanazione" (Le. 19:12) nella Legge (Le 19.12). Che rimane infatti a Dio se viene spogliato della sua verità? Non sarà più Dio. E questo si verifica quando egli viene fatto testimone e consenziente dell'inganno.
Per questo motivo, quando Giosuè vuole costringere Acan a confessare la verità, gli dice: "Figlio mio, dà gloria all'Iddio d'Israele!" (Gs. 7:19) sottintendendo che Dio è gravemente disonorato se si spergiura nel suo nome. E non c'è da meravigliarsene perché dipende  solo da noi che Dio venga diffamato con la menzogna.
Da una espressione analoga dei Farisei, nell'evangelo di san Giovanni (Gv. 9:24) risulta che ci si serviva correntemente di questa formula volendo ascoltare una persona sotto giura mento.
I testi della Scrittura mettono in evidenza lo scrupolo che dobbiamo avere nel fare uso del giuramento. E' detto: "Il Signore è vivente! (1 Re 14:39,45), «Il Signore mi mandi questo o quest'altro male» (4 Re 6:31): «Che Dio ne ma testimone sulla mia anima! » (2 Co. 1:23). Queste formule mostrano che non si può chiamare Dio a testimone delle nostre parole senza che egli punisca lo spergiuro, qualora dica il falso.
25. Il nome di l)io, anche se non c profanato, c' reso sprege vole e il suo onore e sminuito allorche' lo usiamo per un giura mento veritiero, ma superfluo. fl questo il secondo tipo di giura mento in cui lo si nomina invano. Non basta astenerci dallo sper giurare; dobbiamo anche ricordarci che il giuramento non è stato istituito per divertire gli uomini, ma esclusivamente in casi necessari e non e altrimenti lecito. Ne segue che quanti lo usano per fatti senza importanza, ne fanno uso ingiustificate. Non si può invocare altra circostanza necessaria all'infuori del servizio della religione e della carità.
Oggi si pecca smodatamente in questa materia, tanto più che l'uso è invalso di considerare queste cose alla leggera; non è invece cosa di poto conto di fronte al giudizio di Dio. Con indifferenza si fa uso del nome di Dio per futili sciocchezze e non si vede nulla di male in questo perché gli uomini si sono abituati da tempo a farlo in modo sregolato Ma il comandamento di Dio sussiste, la minaccia aggiuntavi rimane inviolabile e un giorno avrà effetto; una vendetta particolare è prevista su tutti coloro che avranno adoperato invano il nome di Dio.
Vi è un altro tipo di errore assai grave, quello di adoperare nei giuramenti il nome dei santi invece di quello di Dio, invocando San Giacomo o sant'Antonio; questa è una manifesta empietà, dato che cosi' vien loro attribuita la gloria appartenente a Dio. Non è senza motivo che Dio ha ordinato esplicitamente di giurare nel suo nome e con divieto speciale ha proibito di giura re per gli dèi stranieri  (De. 6:13; 10:20; Es. 23:13). Questo afferma anche l'Apostolo, scrivendo che gli uomini nei loro giuramenti si appellano a Dio come a un superiore, ma Dio giura per se stesso perché non v'è nessuno maggiore di lui  (Eb. 6:13,16).
26. Gli Anabattisti non si accontentano di tale moderazione nei giuramento ma ne condannano categoricamente ogni forma, in base alla proibizione generale di Cristo: "Vi proibisco del tutto di giurare, ma il vostro sì sia sì; il vostro no, sia no: il di più vien dal male » (Mt. 5:34; Gm. 5:12).
Così facendo recano offesa a Cristo, opponendolo a suo Padre; quasi fosse venuto in terra per annullare i comandamenti di lui. L'Iddio eterno non solo permette il giuramento, considerandolo legittimo nella sua Legge, e questo dovrebbe bastare, ma ordina di adoperano in caso di necessità (Es. 22:11). D'altra parte Cristo testimonia di essere uno con il Padre, di non recare nulla senza il consenso del Padre, di avere una dottrina che non gli appartiene, ecc. (Gv. 10:30: 10:18; 7:16). Che rispondono? Forse che Dio può contraddire se stesso col proibire e condannare quello che una volta ha approvato ordinandolo? Non possiamo dunque accettare la loro tesi.
Queste parole di Cristo presentano pero' qualche difficoltà e dobbiamo esaininarle più da vicino. Non le potremo comprendere se non considerando lo scopo e il senso del passo. E' un fatto che Cristo non vuole qui ampliare o limitare la Legge ma solo ridurla al suo significato naturale, che era stato molto corrotto dalle glosse erronee degli scribi e dei Farisei. Se teniamo presente questo. fatto non dobbiamo pensare che Cristo abbia voluto condannare genericamente tutti i giuramenti, ma solo quelli che trasgrediscono la norma della Legge. Risulta dalle sue parole che il popolo non si tratteneva dallo spergiurare, sebbene la Legge vietasse non solo gli spergiuri ma anche i giuramenti superflui. Perciò il Signore Gesù, da commentatore autentico della Legge, ricorda essere mal fatto non solo lo spergiurare ma anche il giurare (Mt. 5:34). Il giurare in assoluto? No, il giurare invano. Ma lascia completamente liberi e validi i giuramenti approvati. dalla Legge.
Essi si fermano a questa espressione. «del tutto» che però non si riferisce al verbo giurare, ma alle forme di giuramento che seguono. Infatti l'errore consisteva nel credere che giurando per il cielo e per la terra il nome di Dio non fosse toccato. Il Signore, dopo aver denunciato la trasgressione fondamentale, sottrae loro il sotterfugio a cui usano ricorrere, sostituendo nel loro giuramento il cielo e la terra al nome di Dio.
Bisogna notare qui, per inciso, che anche se il nome di Dio non e menzionato, si può giurare per lui in modo indiretto. Così si giura per il sole che ci rischiara, per il pane che si mangia, per il battesimo o gli altri doni di Dio che sono come pegni della sua bontà. Cristo non vieta qui di giurare per il cielo, per la terra né per Gerusalemme perché voglia correggere la superstizione, come alcuni affermano, ma per eliminare la futile giustificazione di quanti non davano alcuna importanza all'aver sempre in bocca dei giuramenti mascherati ed equivoci, pensando evitare il nome di Dio, che è invece impresso in tutti i beni di cui ci fa godere.
Talvolta viene sostituito a Dio un uomo mortale o già de funto oppure un angelo:  i pagani si sono abituati con le loro adulazioni a giurare per la vita o la buona fortuna del loro re. In questo caso deificando glt uomini si oscura e si sminuisce la gloria dell'unico Dio.
Quando non si è mossi da altro scopo o intenzione che quello di confermare il proprio dire con il sacro nome di Dio, la sua maestà è ferita da ogni invocazione facile e gratuita, anche se indiretta. Gesù Cristo, proibendo di giurare del tutto, toglie que sta maschera, questa vana finzione con cui gli uomini credono di giustificarsi. San Giacomo tende allo stesso fine quando ripete le parole del suo Maestro (Gm .5:12): in ogni tempo è stata infatti eccessivamente diffusa questa licenza di abusare liberamente del nome di Dio, abuso che pure diventa profanazione' vera e propria. Se questa parola «del tutto » si dovesse riferire - che significato avrebbe l'aggiunta fatta subito dopo di non do versi invocare né il cielo né la terra? Evidentemente questo de ve servire a chiudere ogni scappatoia a cui gli Ebrei avrebbero potuto ricorrere.
27. Di conseguenza non vi può essere dubbio per le persone di retto intendimento che il Signore in questo passo condanna solamente i giuramenti proibiti dalla Legge. Egli stesso, che ha attuato in tutta la sua vita la perfezione che ordinava, non esita a giurare quando ciò sia necessario, e i suoi discepoli, che senza dubbio hanno osservato la sua regola, hanno seguito il suo esempio. Chi oserebbe sostenere che san Paolo avrebbe voluto giurare se il giuramento fosse del tutto vietato? Orbene, quando l'argomento lo richiede egli giura senza alcun scrupolo, aggiungendo talvolta l'imprecazione.
Tuttavia il problema non è ancora risolto perché alcuni pensano che solo i giuramenti pubblici siano leciti: per esempio quelli che il magistrato ci richiede o che il popolo presta alle sue autorità o le autorità al popolo; i soldati al loro capitano, i principi tra di loro per stipulare qualche alleanza. In questo gruppo includono, giustamente, tutti i giuramenti di san Paolo, dato che gli apostoli nel svolgere il loro compito non erano persone private ma ministri di Dio.
Io non nego che i giuramenti pubblici siano prioritari nella questione essendo confermati dalle più ferme testimonianze del la Scrittura. t ordinato al magistrato di costringere un testimone a giurare quando l'argomento sia dubbio, e il testimone è tenuto ad ottemperare. Similmente l'Apostolo dice che con questo mezzo si decidono le controversie umane (Eb. 6:16). Quindi i due tipi di giuramento sono validi. Si può osservare che antica mente i pagani tenevano in grande considerazione i. giuramenti pubblici e solenni; mentre non valutavano molto quelli fatti in privato, come se Dio non ne tenesse conto. Tuttavia è eccessivo condannare i giuramenti personali formulati sobriamente per questioni che li richiedano: essi sono infatti garantiti da motivazioni valide e da esempi della Scrittura.
Se è lecito ad un privato invocare Dio quale giudice dei suoi propositi, tanto più gli sarà lecito invocarlo quale testimone. Esempio: il tuo prossimo ti accusa di una slealtà? Cercherai di giustificarti per dovere di carità. Non sarà soddisfatto in nessun modo? La tua reputazione è messa in pericolo per l'ostinarsi del la sua infondata accusa? Potrai appellarti senza peccare al giudizio di Dio perché manifesti la tua innocenza. Valutando i termini non c'è grande differenza nel chiamare Dio testimone oppure giudice. Non vedo dunque perché dovremmo respingere una forma di giuramento che chiami Dio quale testimone.
Lo confermano numerosi esempi. Si può obbiettare che quando Abramo e Isacco hanno giurato ad Abimelec (Ge. 21:24, 26, 31) si trattava di giuramenti pubblici, ma Giacobbe e Labano erano privati e tuttavia hanno confermato con un giuramento la loro alleanza (Ge. 31:53). Boaz era un privato ed ha ratificato con un giuramento la promessa di matrimonio con Ruth (Ruth 3:13). Abdia, uomo giusto e timorato di Dio, come dice la Scrittura, si serve di un giuramento per persuadere Elia (3 Re 18:10).
L'atteggiamento migliore mi sembra dunque quello di limitare i nostri giuramenti evitando di farne in modo temerario o superficiale, o quando abbiano motivazioni frivole o siano mossi da risentimenti; ma si limitino all'indispensabile, quando è cioè questione di mantenere integra la gloria di Dio o promuovere la comprensione tra gli uomini; tale è infatti lo scopo del comandamento.
IL QUARTO COMANDAMENTO
Ricordati di santificare il giorno del riposo. Lavorerai sei giorni e farai tutta l'opera tua. Il settimo è il riposo del Signore tuo Dio. Non farai opera alcuna né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né il forestiero ch'è dentro le tue porte. Perché in sei giorni ecc.
28. L'intenzione del comandamento è questa: condurci a meditare sul regno di Dio, sapendoci morti ai nostri propri sentimenti ed alle nostre proprie opere; ed esercitarci a questa meditazione con i mezzi efficaci che Dio ha stabiliti. Esso tuttavia ha un significato peculiare e diverso dagli altri per cui richiede una spiegazione leggermente differente.
Gli antichi dottori usano chiamarlo umbratile perché si riferisce all'osservanza esteriore di un giorno che è stato abolito con la venuta di Cristo, come le altre prefigurazioni di lui. Questo è giusto. Ma essi considerano un aspetto del problema; bisogna dunque affrontarlo più a fondo e considerare tre motivazioni contenute in questo comandamento.
Il legislatore celeste ha voluto, nel riposo del settimo giorno, simboleggiare al popolo d'Israele il riposo spirituale i credenti devono riposarsi delle opere proprie per lasciare Dio operare in se stessi.
In secondo luogo ha voluto ci fosse un giorno fisso per radunarsi ed ascoltare la Legge e praticarne le cerimonie; e in questo modo ci si dedicasse specialmente a considerare le sue opere per esserne stimolati a meglio onorarlo.
In terzo luogo ha voluto dare un giorno di riposo ai servi e a quelli che lavorano alle dipendenze di altri, perché avessero una pausa nel loro lavoro.
29. Molti passi tuttavia ci mostrano che l'immagine del riposo spirituale è l'elemento più importante del comandamento. Dio non ha richiesto infatti una osservanza così rigorosa riguardo a nessun altro comandamento. Quando vuol far notare, mediante i suoi profeti, che la religione è stata interamente sovvertita, si lamenta del fatto che il suo Sabbath sia stato corrotto e profanato o che non sia stato osservato né santificato, quasi egli non potesse, caduto questo elemento, essere onorato in alcun modo (Nu. 15.32 ; Ez. 20.12; 22.8.23.38; Gr. 17.21.22.27; Is. 56.2).
D'altra parte ne loda grandemente l'osservanza, cosicché i credenti possono considerare sommo beneficio la rivelazione del Sabbath.
Così parlano i leviti in Nehemia: "Hai mostrato ai nostri padri il tuo santo Sabbath, i tuoi comandamenti e cerimonie e hai dato loro la Legge per mano di Mosè " (Ne 9.14). Tengono in singolare considerazione questo comandamento, più di tutti gli altri; il che ci mostra la dignità e l'eccellenza del Sabbath. Ne parlano anche Mosè ed Ezechiele. Nell'Esodo leggiamo: "Osservate il mio Sabbath perché esso è un segno tra me e voi per tutte le generazioni, per farvi conoscere che io sono l'Iddio che vi santifica. Osservate il mio Sabbath dunque perché deve esservi santo. I figli d'Israele lo osservino e lo celebrino nei secoli perché costituisce un'alleanza perpetua, un segno per tutta l'eternità " (Es. 31.12 35.2). Questo è detto ancor più esplicitamente in Ezechiele: il sunto del suo discorso indica, però, trattarsi di un segno da cui Israele doveva conoscere che Dio è colui che santifica (Ez. 20.12).
Se la nostra santificazione consiste dunque nella rinuncia alla nostra propria volontà, risulta evidente la similitudine tra il segno esterno e la sostanza. Bisogna riposare completamente, affinché Dio operi in noi, bisogna recedere dalla nostra volontà, sottomettere il nostro cuore, rinunciare a tutte le cupidigie della nostra carne; in breve dobbiamo far tacere tutto quel che procede da noi stessi, onde Dio operi in noi e noi riposiamo in lui, come anche l'Apostolo insegna (Eb. 3.13; 4.6).
30. Questo era raffigurato in Israele dal riposo del settimo giorno. Perché lo si osservasse con maggior religiosità, il nostro Signore ha confermato quest'ordine con il suo esempio. Non deve essere cosa che lascia indifferente l'uomo, il fatto che gli si presenti il proprio Creatore come esempio.
Se qualcuno cerca un significato nascosto nel numero "sette ", dato che nella Scrittura esso indica la perfezione, può darsi che sia stato scelto di proposito per indicare la totalità. Questo si accorderebbe con il fatto che Mosè, dopo aver detto che il Signore si è riposato il settimo giorno, mette fine alla descrizione della successione dei giorni.
Si potrebbe anche congetturare che il Signore abbia voluto significare con questo numero che il Sabbath dei credenti non sarà pienamente realizzato, fino all'ultimo giorno. Lo incominciamo qui e lo perseguiamo quotidianamente; ma, dato che abbiamo ancora un combattimento continuo con la nostra carne, non sarà terminato fin quando non sia realizzata l'affermazione di Isaia secondo cui nel Regno di Dio vi è un Sabbath perenne ed eterno (Is. 66.23); vale a dire quando Dio sarà ogni cosa in tutti (1 Co. 15.28).
Si può dunque ritenere che con il settimo giorno il Signore abbia voluto raffigurare al suo popolo la perfezione del Sabbath che avrà luogo all'ultimo giorno, onde stimolarlo a desiderare quella perfezione durante questa vita, con meditazione continua.
31. Se questa interpretazione sembra troppo ricercata e qualcuno non vuole accettarla, non mi oppongo a che ci si accontenti di una più semplice: il Signore ha stabilito un giorno in cui il popolo fosse guidato, dalla pedagogia della Legge, a meditare sul riposo spirituale che è eterno; ha stabilito il settimo giorno giudicandolo sufficiente, oppure proponendo il proprio esempio per meglio incitare il popolo ad osservare questa cerimonia, o piuttosto per mostrargli che il Sabbath tendeva al solo fine di renderlo simile al suo Creatore. Si tratta di problemi senza importanza, purché rimanga chiaro il significato spirituale: il popolo è incitato a rinunciare alle proprie opere.
A questa considerazione i profeti riconducevano costantemente gli Ebrei affinché non credessero di essere a posto con l'astenersi solo dal lavoro manuale. Oltre al passo citato è detto in Isaia: "Se tu ti trattieni dal violare il Sabbath e non fai la tua volontà nel mio santo giorno e celebri un Sabbath santo e accetto al Signore della gloria, e lo glorifichi non compiendo le tue opere, e la tua volontà non è esercitata, allora prospererai in Dio" (Is. 58.13).
Non c'è dubbio che le cerimonie connesse con l'osservanza di questo comandamento siano state abolite dalla venuta di Cristo. Egli è la verità che con la propria presenza dissolve tutti i simboli, è il corpo di fronte al quale le prefigurazioni decadono. È la realizzazione autentica del Sabbath. Infatti: "Seppelliti con lui mediante il battesimo, siamo innestati nella sua morte, onde, fatti partecipi della sua risurrezione, camminiamo in novità di vita ", (Ro 6.4). Per questo l'Apostolo dice che il Sabbath è stato prefigurazione di ciò che doveva venire, ma la realtà è in Cristo (Cl. 2.16-17) : vale a dire la vera sostanza, la pienezza della verità, come illustra chiaramente in quel passo. Essa non si accontenta di un giorno ma impegna l'intero corso della nostra esistenza fin quando, completamente morti a noi stessi, siamo ripieni della vita di Dio. Ne consegue che i cristiani devono astenersi dall'osservare dei giorni, in modo superstizioso.
32. Le altre due motivazioni del comandamento non devono essere incluse fra i simboli del passato ma valgono per i secoli. Di conseguenza, sebbene il Sabbath sia stato abrogato, non è tuttavia abrogata fra noi l'abitudine di avere un giorno fissato per radunarci ad ascoltare la predicazione, tenere assemblee pubbliche e celebrare i sacramenti; in secondo luogo per dare qualche riposo ai servi e agli operai. Non c'è dubbio che il Signore avesse in mente entrambi questi elementi nello stabilire il Sabbath.
Il primo è confermato dall'uso degli Ebrei. Il secondo è stato rilevato da Mosè nel De con queste parole: "Perché il tuo servo e la tua domestica si riposino come te, ricordati di essere stato servo in Egitto " (De 5.14-15). Così nell'Esodo : "Perché si riposino il tuo bue, il tuo asino e il figlio della tua serva " (Es. 22.12).
Chi potrà negare che queste due esigenze si addicano a noi quanto agli Ebrei? Le assemblee ecclesiastiche ci sono ordinate dalla parola di Dio e la stessa esperienza ci mostra quanto ci siano necessarie. Se non vi sono giorni stabiliti, come ci si potrà radunare? L'Apostolo insegna che ogni cosa deve essere fatta tra noi con ordine e decoro (1 Co. 14.40). L'ordine e il decoro non possono essere osservati senza questa disposizione dei giorni e se essa non ci fosse vedremmo sorgere subito disordini straordinari e confusione nella Chiesa. Se dunque sussiste per noi la stessa necessità, cui il Signore ha voluto provvedere stabilendo il Sabbath per i Giudei, non si potrà dire che questa disposizione non ci tocca. Certamente il nostro buon padre non ha voluto provvedere alla nostra necessità meno che a quella degli Ebrei.
Perché non radunarsi tutti i giorni, qualcuno dirà, al fin di eliminare questa differenza di giorni? Per conto mio, sarei d'accordo, e in realtà la sapienza spirituale di Dio meriterebbe che le si dedicasse qualche ora al giorno.
Ma se non è possibile ottenere di riunirsi quotidianamente per la debolezza di molti, e la carità non permette di costringerli, perché non seguire la regola che Dio ci ha mostrato?
33. Occorre, a questo punto, dilungarci un pochino, perché alcuni spiriti irrequieti. Si agitano a motivo della domenica, lamentando che la cristianità sia mantenuta in una forma di pietà giudaica per il fatto che si attiene tuttora all'osservanza di giorni particolari.
Rispondo che osserviamo la domenica senza spirito giudaico, dato che v'è una grande differenza tra noi e gli Ebrei. Non l'osserviamo come elemento di fede assoluta, come cerimonia in cui pensiamo sia contenuto un mistero spirituale, ma l'utilizziamo come un mezzo necessario per conservare il buon ordine nella Chiesa.
Ma san Paolo, replicano costoro, nega che i cristiani debbano essere giudicati dall'osservanza dei giorni: questi infatti sono solo immagini delle cose future (Cl. 2.16) e per questo motivo l'Apostolo teme di essersi affaticato invano tra i Galati che continuavano ad osservare i giorni (Ga 4.10-11). E ai Romani afferma essere superstizione se qualcuno fa distinzione fra i giorni (Ro 14.5).
Qualsiasi persona di buon senso vede però di quale genere di osservanza l'Apostolo parli! Quelli che rimprovera non miravano al fine suddetto: osservare l'ordine e il decoro nella Chiesa, ma, osservando le feste quali immagine di cose spirituali, oscuravano conseguentemente la gloria di Cristo e la luce dell'Evangelo. Non si astenevano dalle opere manuali, perché queste impedissero loro di dedicarsi alla meditazione della parola di Dio, ma per devozione assurda, immaginando di rendere servizio a Dio per il fatto di riposarsi. San Paolo protesta contro questa erronea distinzione dei giorni, e non contro la legittima regolamentazione che ha la funzione di conservare la pace in mezzo ai cristiani. Le Chiese che egli aveva fondato mantenevano questa osservanza del Sabbath; questo risulta dal fatto che egli stabilisce questo giorno per la raccolta delle offerte in Chiesa (1 Co. 16.2).
Noi paventiamo la superstizione, tuttavia riconosciamo che essa era più da temere nelle feste giudaiche che oggi nella domenica. Era utile lasciar cadere il giorno osservato dagli Ebrei per eliminare la superstizione, ma se ne è messo un altro al suo posto per conservare l'ordine, il decoro e la pace nella Chiesa.
34. Tuttavia gli antichi non hanno scelto la domenica, per sostituirla al Sabbath, senza validi motivi. Dato che l'adempimento del vero riposo raffigurato dall'antico Sabbath si è realizzato nella resurrezione del nostro Signore, i cristiani sono esortati, da questo stesso giorno che ha messo fine ai simboli, a non limitarsi alla cerimonia che era solo un simbolo.
Non mi formalizzo sul numero sette e non voglio sottoporre la Chiesa a qualche forma di servitù; non condannerei affatto le Chiese che avessero altri giorni solenni per radunarsi, purché non vi sia alcuna superstizione nella scelta del giorno: e non ve ne può essere se si mira solamente a mantenere la disciplina e il buon ordine.
La sostanza del comandamento è dunque questa: tendiamo, durante tutta la nostra vita, ad un perpetuo riposo dalle opere nostre, onde Dio operi in noi con il suo Spirito; verità questa manifestata agli Ebrei in figura ed oggi manifestata a noi in realtà.
In secondo luogo concentriamo il nostro spirito, per quanto possiamo, a riflettere sulle opere di Dio, in vista di magnificarlo; osserviamo le disposizioni ecclesiastiche legittime per quanto concerne l'ascolto della Parola, la celebrazione dei sacramenti, la convocazione delle assemblee solenni.
In terzo luogo non sfruttiamo quanti ci sono sottoposti.
Saranno così dissipate le menzogne dei falsi dottori, che nel passato hanno gabbato il popolino con una concezione giudaica: incapaci di distinguere tra la domenica e il Sabbath altrimenti che affermando il settimo giorno essere abrogato, che si osservava allora, ma essere comunque necessario conservarne uno 27. Il che significava aver cambiato il giorno per far dispetto agli Ebrei e tuttavia rimanere nella superstizione che san Paolo condanna: vale a dire conferirgli un significato interiore, come era sotto l'antico Patto. E infatti vediamo cosa ha servito questa dottrina: i suoi seguaci superano gli Ebrei nell'osservanza carnale del Sabbath, tanto che i rimproveri di Isaia (Is. 1.13; 58.13) Si addicono più a loro che a quanti il Profeta condannava ai suoi tempi.
Del resto riteniamo principalmente l'insegnamento generale: essere diligenti nel frequentare le sante assemblee, affinché la religione non decada o si raffreddi tra noi; mettere in opera tutti gli ausili utili a incrementare il servizio a Dio.
IL QUINTO COMANDAMENTO
Onora tuo padre e tua madre affinché i tuoi giorni siano prolungati sulla terra che il Signore l'Iddio tuo ti da.
35. L'intenzione del comandamento è condurci ad osservare i gradi di preminenza così come Dio li ha stabiliti, in quanto egli vuole che l'ordine da lui fissato sia rispettato. La sostanza consiste pertanto in questo: dobbiamo rispettare quanti sono stati dal Signore stabiliti quali nostri superiori, rendendo loro onore e obbedienza, riconoscendo il bene che ci hanno fatto. Ne consegue il divieto di recare offesa alla loro dignità con atteggiamenti di ribellione o ingratitudine. La parola "onore ", nella Scrittura, ha infatti un significato ampio: l'Apostolo, ad esempio, afferma che i presbiteri che presiedono bene sono degni di doppio onore (1 Ti. 5.17) , intendendo non solo il rispetto loro dovuto ma anche la remunerazione della loro fatica.
Questo comandamento che ci sottopone ai nostri superiori e nettamente in contrasto con la perversità della nostra natura, dominata dall'ambizione e dall'orgoglio e non si sottomette volentieri: per questo ci è stata proposta come esempio l'autorità meno odiosa e più amabile, in quanto poteva meglio addolcire e piegare i nostri cuori alla sottomissione e all'obbedienza. Il Signore, servendosi della forma di sottomissione più dolce ed agevole da portare, ci abitua, a poco a poco, a ogni soggezione; in quanto tutte sussistono in base ad un'unica motivazione: Quando attribuisce una preminenza a qualcuno, gli comunica il proprio nome, in quanto è necessario per conservarla. I titoli di "Padre ", "Dio ", "Signore "gli sono propri di sorta che quando sono menzionati, il nostro cuore dev'essere toccato dal riconoscimento della sua maestà. Quando ne fa partecipi gli uomini, dà loro come una scintilla della sua luce per nobilitarli e renderli onorevoli nella loro funzione. In chi è chiamato "padre "bisogna dunque riconoscere un qualche onore divino, dato che non senza motivo porta un titolo di Dio. Parimenti chi è principe o signore in certo qual modo partecipa alla dignità di Dio.
36. Non c'è dubbio quindi che il Signore istituisca qui una regola universale: in quanto riconosciamo qualcuno esserci da lui stabilito quale superiore, dobbiamo tributargli onore, rispetto e amore e servirlo in quanto possibile. Né bisogna guardare se i superiori siano degni oppure no di questo onore; comunque siano, non sono arrivati a quella posizione senza la volontà di Dio e per questo il Signore ci ordina di onorarli.
Tuttavia ci ordina, esplicitamente, di tributare onore ai nostri genitori che ci hanno generato, cosa che la stessa natura ci dovrebbe insegnare. Quanti offendono l'autorità paterna Cl. loro disprezzo o la loro ribellione, sono mostri e non uomini. Per questo il Signore ordina di mettere a morte chi disobbedisce al padre e alla madre. A buon diritto: non essendo in grado di discernere coloro che gli hanno dato la vita non è in grado di vivere.
Risulta evidente in molti passi della Legge la verità di quanto abbiamo detto, vale a dire che l'onore di cui si parla qui ha tre aspetti: venerazione, obbedienza, amore, derivanti dal riconoscimento del bene ricevuto.
Il primo è ordinato da Dio allorché stabilisce che venga messo a morte chi abbia maledetto suo padre e sua madre (Es. 21.17; Le 20.9); si punisce così ogni forma di disprezzo e di offesa.
Il secondo quando ordina che sia messo a morte il figlio ribelle e disobbediente (Pr 20.20; De 21.18).
Il terzo è confermato dall'affermazione di Gesù Cristo nel quindicesimo capitolo di san Matteo: servire e beneficare i genitori è comandamento divino (Mt. 15.4).
Ogni volta che Paolo menziona questo comandamento, ci esorta all'obbedienza, si riferisce cioè al secondo aspetto.
37. Contemporaneamente è aggiunta la promessa, come sottolineatura, onde ricordarci quanto sia gradita a Dio tale sottomissione (Cl. 3.20). San Paolo ci stimola osservando che questo comandamento è il primo connesso con una promessa (Ef. 6.2) : infatti la promessa che precedeva, nella prima Tavola non si riferiva a un comandamento solo, ma a tutta la Legge.
Tale promessa deve essere intesa in questo senso: il Signore parlava specificatamente della terra che aveva promesso agli Israeliti in eredità. Se dunque il possesso di questa terra era un pegno della bontà di Dio e della sua generosità, non dobbiamo stupirci che abbia voluto dimostrare loro la sua bontà promettendo lunga vita per poter più lungamente godere del suo dono. È come se dicesse: Onora padre e madre onde vivendo più a lungo tu possa godere più a lungo della terra che è una prova della mia grazia verso di te.
Del resto tutta la terra essendo benedetta per i credenti, a buon diritto consideriamo la vita presente come una benedizione di Dio. Quindi, considerato che una lunga vita è prova della benevolenza di Dio nei nostri riguardi, questa promessa vale anche per noi: la vita lunga non ci è promessa, come non è promessa agli Ebrei, perché contenga in se la felicità ma in quanto costituisce per i giusti un segno della bontà di Dio.
Se dunque avviene che un fanciullo obbediente ai genitori, muoia in gioventù, come spesso avviene, Dio non vien meno alla sua promessa; l'adempie come chi dia cento iugeri di terra a qualcuno cui ne aveva promesso uno solo. In sostanza si tratta di questo: la vita lunga ci è qui promessa in quanto rappresenta una benedizione: tanto più ch'essa è benedizione di Dio e ci documenta quella grazia che egli manifesta ai suoi servi centomila volte di più nella morte.
38. Quando al contrario il Signore promette la sua benedizione nella vita presente a chi avrà obbedito a padre e madre, vuole significare che la sua maledizione colpirà quanti hanno disobbedito. E nella Legge li dichiara degni di morte, affinché il suo giudizio si realizzi, e se sfuggono in qualche modo alle mani degli uomini, ne farà vendetta. E infatti vediamo quante di queste persone muoiono in guerra o in risse o in altra maniera: al punto che si può scorgere l'opera di Dio nella loro morte sventurata. E se qualcuno riesce a sfuggire fino alla vecchiaia, in questa vita, non fa che languire essendo privo della benedizione di Dio e per l'avvenire gli è riservata anche maggiore pena: è ben lungi dunque dal partecipare alla promessa offerta ai figli obbedienti.
Per finire, dobbiamo ancora brevemente osservare che non ci è ordinato di obbedire ai genitori se non in Dio (Ef. 6.1) , il che risulta chiaro dalla motivazione che ne abbiamo data. Essi sovrintendono a noi in quanto Dio li ha eletti a farlo, comunicando loro una parte della sua dignità. Il sottometterci ad essi deve dunque essere come un gradino per condurci al rispetto di lui, Padre assoluto; se dunque i genitori ci vogliono indurre a trasgredire la sua Legge, non dobbiamo considerarli genitori ma estranei che vogliono stornarci dall'obbedienza al vero Padre.
Lo stesso atteggiamento dobbiamo avere nei riguardi dei prìncipi, dei signori e dei superiori: sarebbe indegno che la loro preminenza servisse a diminuire la sovranità di Dio, dato che dipende da quest'ultima e deve contribuire ad aumentarla anziché sminuirla, a rafforzarla anziché offenderla.
IL SESTO COMANDAMENTO
Non uccidere.
39. L'intenzione del comandamento è che ciascuno abbia a cuore la salvezza e la conservazione di tutti, dato che Dio ha costituito il genere umano come una unità. Di conseguenza è vie tata ogni azione violenta o dannosa che possa ferire il corpo del nostro prossimo. Di qui deriva l'aspetto positivo del comandamento: se possiamo fare qualcosa per conservare la vita del nostro prossimo, dobbiamo adoperarci diligentemente sia procurando quanto necessario, sia ovviando a quanto è negativo, parimenti aiutandolo e soccorrendolo se si trova nel pericolo o nell'insicurezza.
Se ci ricordiamo che qui parla Dio il legislatore, dobbiamo concludere che egli dà questa regola alla nostra anima; sarebbe ridicolo che colui che legge i desideri del cuore e li valuta singolarmente, indirizzasse solamente il nostro corpo alla vera giustizia. È dunque vietato il sentimento omicida e ci è chiesto un desiderio intimo di conservare la vita del nostro prossimo. Sebbene sia la mano che genera l'omicidio, tuttavia a concepirlo è il cuore, quando è corrotto dall'ira e dall'odio.
Considera se ti è possibile arrabbiarti contro il fratello senza anche desiderare di nuocergli; se non puoi odiarlo senza questo sentimento neppure puoi arrabbiarti senza odio, dato che l'odio è semplicemente ira radicata. Anche se lo nascondi e cerchi di dissimulare, è certo che odio e ira non sussistono senza desiderio di nuocere. Se vuoi ancora tergiversare, lo Spirito Santo ti dichiara che chiunque odia suo fratello è un omicida nel suo cuore (1 Gv. 3.15). Gesù Cristo afferma che chi odia il fratello è degno di giudizio; chi mostra segno di corruccio è degno della condanna di tutto il Concistoro, chi lo ingiuria è degno della geenna del fuoco (Mt. 5.22).
40. La Scrittura fonda questo comandamento su due motivazioni: gli uomini sono immagine di Dio e sono compartecipi della nostra stessa carne. Se dunque non vogliamo offendere l'immagine di Dio, non dobbiamo recare offesa alcuna al nostro prossimo, e se non vogliamo rinnegare ogni umanità, dobbiamo averne cura come della nostra propria carne.
Altrove esporremo la conclusione cui si deve giungere, a questo proposito, in séguito al dono della redenzione di Cristo. Ma il Signore ha voluto che considerassimo naturalmente questi due aspetti nell'uomo, perché ci inducano ad agire bene nei suoi confronti, che veneriamo l'immagine divina impressa in ogni uomo e amiamo la nostra propria carne. Di conseguenza chi si sia astenuto dal versare il sangue non è per questo innocente del crimine di omicidio. Chi commette realmente oppure medita o macchina o concepisce nel suo cuore qualcosa contro il bene del prossimo, è considerato omicida da Dio. D'altra parte trasgrediamo il comandamento per il nostro atteggiamento di insensibilità, non adoperandoci a far del bene al prossimo, secondo le nostre possibilità e nelle occasioni che ci si presentano.
Se il Signore si preoccupa tanto della incolumità fisica di ognuno, possiamo dedurre quanto ci impegni a procurare la salvezza delle anime che sono per lui incomparabilmente più preziose.
IL SETTIMO COMANDAMENTO
Non commettere adulterio.
41. L'intenzione del comandamento è tenerci lontani da ogni impudicizia, dato che Dio ama la purezza e la castità. La sua sostanza consiste nell'invito a non macchiarci di impurità o intemperanza della carne. A questo corrisponde l'aspetto positivo: là nostra vita sia regolata, in tutte le sue parti, dalla castità e dalla continenza.
Viene proibita esplicitamente la fornicazione, cui tende ogni incontinenza, affinché nel peccato più turpe e grave, in quanto disonora il nostro corpo, ci appaia odiosa ogni incontinenza.
L'uomo è stato creato in modo da non vivere solitario ma da avere un aiuto a lui simile. La maledizione del peccato lo ha ancor maggiormente assoggettato a questa necessità. Il Signore ci ha dato a questo proposito un utile rimedio istituendo il matrimonio, che ha stabilito con la sua autorità e santificato con la sua benedizione. Ne risulta che ogni unione di uomo e di donna al di fuori del matrimonio, è maledetta nel suo cospetto: e che l'unione coniugale ci è data quale rimedio alla nostra necessità, perché non lasciassimo senza freno la nostra concupiscenza. Non illudiamoci dunque, l'uomo e la donna non possono avere relazioni fuori del matrimonio senza essere maledetti da Dio.
42. Abbiamo doppiamente bisogno di questo rimedio, sia per la condizione originaria della nostra natura che per il peccato sopravvenuto, e nessuno ne è esente se non quanti hanno ricevuto da Dio la grazia particolare. Ciascuno esamini dunque quel che ha ricevuto.
Riconosco che la verginità è una virtù da non disprezzare; ma essa non è data a tutti, oppure è data solo temporaneamente. Chi è tormentato dall'incontinenza e non può vincerla, ricorra dunque al rimedio del matrimonio, onde conservare la castità secondo il grado della propria vocazione. Se chi non ha ricevuto il dono della continenza non sovviene alla propria debolezza con il rimedio offerto e permesso da Dio, si oppone a Dio e resiste al suo ordine.
Nessuno obbietti a questo punto, come molti usano fare, che con l'aiuto di Dio è possibile ogni cosa perché questo aiuto è dato solo a chi cammina nelle proprie vie, vale a dire secondo la propria vocazione (Sl. 91.1.14). Da essa si allontana chi, tralasciando i mezzi offerti da Dio, vuole sormontare i propri bisogni con folle temerarietà.
Il Signore dichiara che la continenza è un dono particolare, non concesso indiscriminatamente a tutto il corpo della sua Chiesa ma a ben pochi membri. Ci addita un certo numero di uomini che si sono castrati per il regno dei cieli, vale a dire per poter più liberamente servire la gloria di Dio. E perché nessuno pensasse che questo era alla portata di tutti, precedentemente aveva detto che non tutti ne sono capaci ma solo quelli cui è dato dal cielo. Conclude che chi potrà farlo, lo faccia (Mt. 19.11-12). San Paolo insegna la stessa cosa, più chiaramente, dicendo che ciascuno ha ricevuto da Dio la propria grazia, l'uno in un modo, l'altro nell'altro (1 Co. 7.7).
43. Siamo dunque esplicitamente avvertiti che non è in nostro potere di conservare la castità fuori del matrimonio, anche se lo si volesse e ci si sforzasse di raggiungerla. Ci vien anche detto trattarsi di una grazia speciale di Dio, concessa solo ad alcune persone per renderle più pronte e più disponibili per il suo servizio. Non combattiamo forse contro Dio e contro la natura che egli ha stabilito non adattando il nostro modo di vivere alla misura delle nostre possibilità? In questo comandamento Dio proibisce la fornicazione; richiede dunque da noi purezza e castità. Ora il solo modo di conservarla è che ciascuno consideri le proprie possibilità e nessuno disprezzi il matrimonio giudicandolo inutile o superfluo, nessuno desideri evitarlo a meno che possa far a meno di una donna, nessuno in questo campo miri al proprio soddisfacimento carnale o al proprio comodo, ma cerchi solamente di essere meglio pronto a servire Dio, libero da ogni legame che possa distrarvelo.
Molti hanno il dono della continenza solo per un periodo, come abbiamo detto; costoro si astengano dal matrimonio solo quando possono farne a meno e non oltre. Se vien loro meno la forza di domare e vincere la concupiscenza della carne, comprendano da questo che Dio impone loro la necessità di sposarsi. Lo dichiara l'Apostolo quando ordina che ciascuno abbia la propria moglie per evitare la fornicazione, e ciascuna donna abbia il proprio marito; inoltre che chi non può contenersi, si sposi in Dio (1 Co. 7.2.9).
Egli intende dire anzitutto che la maggior parte degli uomini è soggetta all'incontinenza, in secondo luogo non fa eccezione per alcuno che vi sia soggetto e ordina a tutti di ricorrere all'unico rimedio proposto per ovviare all'impudicizia. Chi dunque non è in grado di contenersi ma disprezza questo rimedio alla debolezza, commette peccato anche perché non obbedisce al comandamento dell'Apostolo.
Né chi si astiene dal fornicare effettivamente deve illudersi di non peccare di impudicizia, se il suo cuore brucia di mala concupiscenza. San Paolo dichiara che la vera castità comprende la purezza dell'anima assieme all'onestà del corpo: "Quella non maritata "egli dice "pensa a Dio, e ad essere santa di corpo e di spirito " (1 Co. 7.34). Volendo spiegare la ragione di questa affermazione, secondo cui chi non può contenersi si deve sposare, dice non solo che è meglio prendere moglie che macchiare il proprio corpo con una prostituta, ma anche che è meglio sposarsi che ardere.
44. Se le persone sposate riconoscono che la propria unione è benedetta da Dio, ne siano ammonite a non contaminarla con dissoluta intemperanza. L'onestà del matrimonio copre la vergogna dell'incontinenza, ma non deve esserne stimolo. Non pensino dunque che ogni cosa è loro lecita, ma ciascuno abbia un atteggiamento sobrio con la propria moglie e la moglie con il proprio marito, comportandosi in modo da non far nulla contro la santità del matrimonio. Il matrimonio stabilito da Dio deve essere regolato e guidato dalla verecondia, e non scivolare nella lascivia. Sant'Ambrogio rimprovera quanti abusano del matrimonio con intemperanza lasciva e adopera una parola dura, ma non fuori proposito: definisce chi non osserva la modestia e pudore "fornicatore con la propria moglie ".
Dobbiamo infine considerare chi sia il legislatore che condanna la fornicazione. È colui che ci possiede interamente e dunque, a buon diritto, ci richiede integrità di corpo, di anima e di spirito. Quando vieta di fornicare, ci vieta anche di indurre gli altri al male con acconciature indecenti, gesti e atteggiamenti impudichi, parole impure. Un filosofo chiamato Archelao dice giustamente ad un giovane vestito con eccessiva ricercatezza che è indifferente in quale parte del corpo manifesti la sua impudicizia; a ragione, dico, di fronte ad un Dio che ha in abominazione ogni sozzura dell'anima o del corpo, dovunque essa sia.
E affinché nessuno ne dubiti, consideriamo che Dio ci ordina la castità: se l'ha ordinata, vuol dire che condanna quanto vi è contrario. Se vogliamo obbedire a questo comandamento il cuore non deve bruciare interiormente di mala concupiscenza né lo sguardo deve essere impudico né il viso ornato di trucco né la lingua allettare alla fornicazione con parole impure, né la bocca darvi motivo con la sua intemperanza. Tutti questi vizi sono come macchie che deturpano la castità e la continenza e ne sporcano la purezza.
L'OTTAVO COMANDAMENTO
Non rubare.
45. L'intenzione del comandamento è che rendiamo a ciascuno quel che gli appartiene, dato che ogni ingiustizia è sgradita a Dio. La sua sostanza consiste dunque nella proibizione fattaci di cercare di impadronirci dei beni altrui; e di conseguenza nell'invito ad adoperarci diligentemente a conservare a ciascuno il suo. Dobbiamo tener presente che quanto ciascuno possiede, non lo ha per caso fortuito, ma grazie al dono di colui che è padrone supremo e signore di ogni cosa, per questo motivo non si può frodare qualcuno delle sue ricchezze senza violare la dispensazione di Dio.
Vi sono molti tipi di furto. Uno è violento, allorché con la forza, in modo brigantesco, si ruba e si saccheggia il bene altrui. L'altro si serve della frode maliziosa, quando subdolamente si impoverisce il prossimo ingannandone la fiducia. Altro è l'astuzia più nascosta allorché si incamera con belle parole, o con la falsificazione di una donazione o in altro modo, quanto doveva appartenere ad un altro.
Non fermiamoci troppo ad esporre i diversi modi: notiamo sinteticamente che tutti i mezzi di cui ci serviamo per arricchirci ai danni altrui devono essere considerati furti quando si allontanano dalla sincerità cristiana, che deve essere amata, e ricorrono ad astuzie equivoche o in qualsiasi altro inganno. Chi agisce in questo modo spesso vince la propria causa davanti al giudice: Dio però lo considera semplicemente come un ladro. Egli vede le trappole a lunga scadenza che gli astuti preparano per cogliere i semplici nelle proprie reti, vede la durezza delle richieste con cui i grandi opprimono i piccoli, vede quanto velenose siano le lusinghe di chi vuole lusingare qualcuno per ingannarlo, anche se tutto questo non giunge alla conoscenza degli uomini.
Ma la trasgressione di questo comandamento non consiste solo nel far torto a qualcuno per quanto riguarda il denaro o le merci o i possedimenti: ma per quanto riguarda ogni diritto. Frodiamo il nostro prossimo se gli neghiamo i servizi di cui gli siamo debitori. Se un procuratore o un mezzadro o un contadino invece di vegliare sui beni del padrone vive nell'ozio senza preoccuparsi di procurare il bene di chi lo nutre, se dissipa malamente quel che gli è affidato o ne approfitta nello sciupio, se un servitore si beffa del suo padrone, se ne divulga i segreti, se prepara una macchinazione contro i suoi beni o la sua reputazione o la sua vita, se d'altra parte il padrone tratta in modo inumano la propria casa, si tratta di un furto davanti a Dio. Chi non compie il dovere che la sua vocazione comporta verso gli altri, si trattiene per se quanto appartiene agli altri.
46. Ottemperiamo al comandamento quando ci accontentiamo della nostra condizione, cerchiamo di guadagnare solamente in modo onesto e legittimo, non desideriamo arricchirci facendo torto al nostro prossimo, non progettiamo di distruggerlo per impadronirci dei suoi beni, non ci adoperiamo ad accumulare ricchezze ricavate dal sangue o dal sudore altrui, quando non ci affanniamo smodatamente in un modo e nell'altro, di qua e di là per soddisfare la nostra avarizia oppure scialare prodigalmente. Al contrario dobbiamo aver sempre il fine di aiutare ognuno, per quanto possiamo, con il consiglio e gli averi, a conservare il suo; e se ci accade di aver a che fare con malvagi e ingannatori, siamo pronti piuttosto a rimettere del nostro che a combatterli con analoga malizia. E quando vedremo qualcuno in povertà, aiutiamo la sua indigenza e alleviamo la sua necessità con la nostra abbondanza.
Infine ciascuno presti attenzione ai propri doveri verso gli altri, connessi con i doveri del suo ufficio, per adempierli lealmente. Il popolo onori quindi i suoi superiori, sottomettendosi ad essi di buon grado, obbedendo alle leggi ed agli ordinamenti, non rifiutando quel che può fare senza offendere Dio; d'altra parte i superiori abbiano cura e sollecitudine nel governo del popolo, nel conservare la pace dappertutto, nel difendere i buoni e punire i malvagi, nel governare come chi abbia a rendere conto del proprio ufficio a Dio, supremo giudice.
I ministri ecclesiastici amministrino fedelmente la parola di Dio, non corrompendo la parola di salvezza ma conservandone la purezza. E non istruiscano solamente il popolo con la buona dottrina, ma anche con l'esempio di vita. Presiedano insomma come buoni pastori sul gregge. D'altra parte il popolo li riceva come messaggeri ed apostoli di Dio rendendo loro l'onore che il Signore attribuisce loro e fornendo loro il necessario per vivere.
I genitori si adoperino a nutrire, istruire e dirigere i figli, affidati loro da Dio, senza trattarli con eccessiva severità al punto di scoraggiarli, ma guidandoli con dolcezza e benevolenza adatta alle loro persone; come è già stato detto, i figli devono loro rispetto e sottomissione.
Parimenti i giovani onorino i vecchi perché il Signore ha voluto rendere onore a questo stato, e i vecchi cerchino di istruire i giovani con la propria sapienza, non trattandoli con troppo rigore ma ricorrendo ad una severità temperata di dolcezza e delicatezza.
I servi siano servizievoli verso i propri padroni, diligenti nel servirli, non solo per l'apparenza ma con il cuore, come servi di Dio. I padroni non siano troppo esigenti e intrattabili verso i propri servi, opprimendoli con eccessiva severità, trattandoli ingiuriosamente, ma piuttosto li riconoscano come fratelli e compagni nel servizio di Dio, onde vivano umanamente.
Ciascuno consideri in questo modo quel che deve al prossimo a seconda della posizione e della situazione, e renda quel che deve.
Principalmente occorre che teniamo presente il legislatore, per non dimenticare che questa norma è stabilita per l'anima non meno che per il corpo: e ciascuno così dedichi la volontà a conservare e a far progredire il bene e l'interesse comune.
IL NONO COMANDAMENTO
Non dirai falsa testimonianza contro il tuo prossimo.
47. L'intenzione del comandamento è di farci rispettare la verità senza inganni, perché Dio, che è verità, odia la menzogna. La sua sostanza consiste in questo: non dobbiamo ferire la reputazione di nessuno con calunnie o voci false né danneggiarlo con menzogne o falsità; in breve, non dobbiamo far torto a nessuno né con la maldicenza né con la beffa. A questa proibizione corrisponde l'aspetto positivo: siamo invitati ad aiutare fedelmente ognuno a mantenere la verità per conservare il proprio bene o la propria reputazione.
Il Signore ha voluto esporre il significato di questo comandamento nel ventitreesimo capitolo dell'Esodo , dove dice: "Non spargerai voce di menzogna né ti unirai all'empio per dire falsa testimonianza ": "Fuggirai ogni menzogna " (Es. 23.1.7). E in un altro passo non solo ci vieta di essere pettegoli, detrattori e maldicenti (Le 19.16) , ma anche di ingannare il nostro fratello, e mette in guardia esplicitamente contro le due cose.
Non c'è dubbio che, come ha voluto correggere nei precedenti comandamenti la crudeltà, l'impudicizia e l'avarizia, vuole ora reprimere la falsità, compresa nei due aspetti che abbiamo detto. Infatti maledicendo colpiamo la reputazione del nostro prossimo oppure con menzogne e parole subdole danneggiamo il suo interesse.
Poco importa se si intende qui la testimonianza solenne resa in giudizio o quella contenuta nella conversazione privata. La questione è sempre la stessa e il Signore ci propone per ogni genere di vizio un esempio scegliendo quello più grave a cui bisogna ricondurre tutti gli altri. Bisogna dunque intendere il comandamento in modo più generale, avendo come obbiettivo tutte le calunnie e le detrazioni che nuocciono al prossimo. D'altronde non vi è falsa testimonianza in giudizio, senza spergiuro: e la proibizione di questo e già stata presentata nel terzo comandamento della prima Tavola, in quanto profanazione del nome di Dio.
Per osservare questo comandamento dobbiamo dunque mettere la nostra bocca al servizio del prossimo nella verità, per conservargli la sua reputazione e il suo utile. Il perché è evidente: se la reputazione è più preziosa di qualsiasi tesoro, si fa altrettanto torto ad un uomo togliendogli la reputazione che spogliandolo dei suoi beni. D'altronde talvolta si fa più male al prossimo con la menzogna che con il furto.
48. Eppure fa meraviglia come non ci si preoccupi affatto di ferire, a questo riguardo! Sono pochi a non essere macchiati da questo vizio, tutti sono dediti a scoprire ed enumerare i vizi altrui. Né si pensi che il non mentire sia scusa valida. Colui che ci proibisce di diffamare il prossimo con la menzogna, vuole che ne sia conservata la reputazione, quanto è compatibile con la verità. Anche se proibisce solo di ferirlo con la menzogna, con questo dimostra di averlo a cuore. E deve bastarci il pensiero della sollecitudine del Signore per incitarci a conservare integra la reputazione altrui. È dunque condannato ogni genere di maldicenza.
Per "maldicenza "non deve intendersi il rimprovero che si fa a fine di correggere l'uomo, l'accusa giudiziaria che si fa per rimediare ai reati, le correzioni pubbliche nei riguardi di qualcuno per intimorire gli altri, l'avvertimento della malvagità di un uomo dato a quanti è utile la conoscano per non essere ingannati, ma l'ingiuria odiosa fatta con proposito malvagio o desiderio di calunniare.
Questo comandamento anzi giunge a vietarci di usare una scherzosa mordacità ed un elegante sarcasmo, deridendo gli uni e gli altri, come fanno alcuni che provano sommo piacere quando possono mettere alla berlina qualcuno. Spesso queste intemperanze lasciano un segno sull'uomo che ne è oggetto.
Se teniamo a mente chi sia il legislatore, il quale deve regolare il cuore e le orecchie oltre che la lingua, ci renderemo conto che è proibito, non meno della maldicenza, anche l'avidità di ascoltare i maligni e la prontezza a prestare l'orecchio e credere facilmente le loro malvagie chiacchiere. Sarebbe una beffa dire che Dio odia la maldicenza della lingua e non riprova la malignità del cuore.
Se dunque abbiamo timore genuino e amore di Dio, impegniamoci, per quanto possibile e convenevole, e confacente a carità, a non prestare le orecchie né la lingua a biasimare, calunniare o pettegolare: né diamo nel nostro cuore facile esca a malvagi sospetti. Interpretando equamente i fatti e i detti di ognuno, conserviamo piuttosto in ogni modo l'onore di ciascuno.
IL DECIMO COMANDAMENTO
Non concupire la casa del tuo prossimo, né la sua moglie né il suo servo né la sua serva né il suo bue né il suo asino né cosa alcuna che gli apparteneva.
49. L'intenzione del comandamento è di allontanare dal nostro cuore ogni cupidigia, perché Dio vuole che tutta la nostra anima sia posseduta interamente dall'amore caritatevole. La sostanza consiste in questo: non deve venirci in mente alcun pensiero che spinga il nostro cuore alla concupiscenza e sia suscettibile di recare danno al nostro prossimo. A questo corrisponde l'aspetto positivo: qualunque cosa concepiamo, deliberiamo, desideriamo o perseguiamo, sia connessa con il bene e l'utilità del nostro prossimo.
Sorge, a questo punto, una grave difficoltà. Se è vero quel che abbiamo detto dianzi, che cioè il Signore proibendo fornicazione e furto vietava l'impudicizia e ogni desiderio di nuocere, ingannare e derubare, sembrerebbe ora superfluo proibire separatamente il desiderio dei beni altrui.
Possiamo risolvere la questione considerando la differenza tra "proposito "e "concupiscenza ". Chiamiamo proposito una deliberata decisione della volontà allorché il cuore umano è soggiogato e vinto dalla tentazione. La concupiscenza può aver luogo anche senza questo proposito, allorché il cuore è sollecitato e invogliato a commettere qualche malvagità. Come dunque il Signore in precedenza ha voluto che la volontà, l'attuazione e le opere dell'uomo fossero regolate dalla carità, così ora vuole che anche i pensieri dell'animo vi si riferiscano, di sorta che non ve ne sia alcuno che stimoli in senso contrario. Come prima ha proibito che il cuore fosse indotto a ira, odio, fornicazione, ruberìa, menzogna così ora vieta che vi sia provocato o sollecitato.
50. Non senza ragione egli richiede tale rettitudine. Chi oserà negare che tutte le facoltà dell'anima debbano essere volte alla carità? E se qualcuna se ne allontana, chi non la riterrà viziata? Come può accadere che penetri nella tua mente una qualche cupidità dannosa al tuo prossimo, se non per il fatto che invece di tener conto degli altri cerchi solamente il tuo vantaggio? Se il tuo cuore fosse interamente dominato dalla carità, nessun sentimento del genere vi entrerebbe. Quando accoglie queste concupiscenze e dunque privo di carità.
Qualcuno obietterà che non è esatto condannare come concupiscenze (sentimenti cioè che nascono nel cuore) fantasie, che svolazzano nel cervello per poi svanire. Rispondono che tali fantasie non si agitano solo nel cervello, ma muovono il cuore a concupiscenza; infatti non concepiamo mai un desiderio o un'aspirazione con il cervello senza che il cuore ne sia toccato ed infiammato.
Il nostro Signore ci chiede dunque un eccezionale slancio di carità che non deve essere ostacolata dalla minima concupiscenza. Richiede un cuore perfettamente regolato che non deve essere punto neppure da un solo pensiero contrario alla legge di carità.
Sant'Agostino mi ha aperto la via alla comprensione di questo comandamento; non si pensi che sia solo ad avere tale opinione.
L'intenzione di Dio è stata di proibire ogni mala concupiscenza; tuttavia egli ha dato, come esempio, gli oggetti che più speso ci attirano e ci seducono. Nulla è così concesso alla cupidigia umana, essendo menzionati quegli oggetti verso cui essa e particolarmente attratta.
Abbiamo così esaminato la seconda Tavola della Legge, che ci ricorda ampiamente i doveri che abbiamo riguardo agli uomini per l'amore di Dio, su cui si fonda la carità. Ci si sforzerebbe perciò inutilmente di inculcare le cose insegnate in questa seconda Tavola, se questo insegnamento non fosse fondato sul timore e ossequio di Dio come su di un fondamento.
Chi divide in due questo comandamento strappa quello che Dio aveva unito, come ogni lettore di sano intendimento può vedere da solo. Poco importa che questo verbo "non concupire "sia ripetuto una seconda volta; dopo aver menzionato la famiglia Dio ne elenca le parti, incominciando dalla donna. C'è un legame che congiunge queste cose e bisogna dunque leggere tutto di seguito, come gli Ebrei erano giustamente usi fare.
Dio comanda insomma, non solo di astenersi dal frodare e dal malfare e di lasciare a ciascuno tutto intero quel che possiede: ma anche di non essere mossi da alcuna concupiscenza che spinga i cuori a nuocere agli altri.
51. Non è difficile giudicare ora quale sia il fine a cui mira la Legge: una giustizia perfetta onde la vita dell'uomo si conformi, come ad un modello, alla purezza di Dio. Il Signore ha espresso nella Legge la propria natura talché se qualcuno adempisse quanto vi è prescritto, rifletterebbe nella propria vita l'immagine di Dio. Ecco perché Mosè, volendo imprimere nella memoria del popolo d'Israele i suoi comandamenti diceva: "Che cosa ti comanda il tuo Dio, o Israele, se non di temerlo e di camminare nelle sue vie? Di amarlo e di servirlo con tutto il cuore, con tutta l'anima e di osservare i suoi comandamenti? " (De 10.12). E non cessava di ripeter loro questo ogni volta che voleva additare il fine della Legge. L'insegnamento dato dalla Legge: unire l'uomo al suo Dio con la santità di vita e, come dice Mosè altrove, farlo aderire a lui. L'attuazione di questa santità implica l'obbedienza a questi due comandamenti: amare il Signore Iddio con tutto il nostro cuore, con tutta la nostra anima e con tutte le nostre forze (De 6.5; 11.13); e poi il nostro prossimo come noi stessi (Le 19.18; Mt. 22.37-39).
Il primo impone alla nostra anima di essere ripiena della carità di Dio. Ne deriverà l'amore del prossimo. Questo intende l'Apostolo allorché dichiara: il fine dei comandamenti è la carità, con coscienza pura e fede non finta (1 Ti. 1.5). Vediamo che la buona coscienza e la fede, in una parola la pietà e il timore di Dio, sono anteposti, come principio, e la carità ne deriva.
Sarebbe dunque follia pensare che la Legge insegni solo qualche dato elementare di giustizia, per proporre agli uomini solo un inizio senza condurli lungo una via perfetta. Non sapremmo infatti desiderare maggiore perfezione di quella contenuta nell'affermazione di Mosè e in quella di san Paolo. Chi potrebbe non dichiararsi soddisfatto di un insegnamento che spinge l'uomo al timore di Dio, al servizio spirituale verso la sua maestà, all'obbedienza dei suoi comandamenti, al seguire con rettitudine le vie di Dio, infine alla purezza della coscienza, alla sincerità della fede e dell'amore?
Questo conferma la nostra interpretazione, che riscontra nei comandamenti della Legge tutto quanto è richiesto da un atteggiamento di pietà e di carità. Chi si ferma ad alcuni elementi, come se essa insegnasse la volontà di Dio solo a metà, non ne considera il fine, come dice l'Apostolo.
52. Talvolta Cristo e gli Apostoli, riassumendo la Legge, non fanno menzione della prima Tavola: dobbiamo dunque dire al riguardo qualcosa perché molti sono indotti in errore riferendo parole dette di una sola metà a tutta quanta la Legge.
In san Matteo Cristo dichiara che l'essenziale della Legge consiste nella misericordia, nel giudizio e nella fede (Mt. 23.23). Non v'è dubbio che con questa parola "fede "intenda "verità ", contrapposta a inganno e finzione. Ma per estendere questa affermazione alla Legge universale, alcuni intendono erroneamente la parola "fede "nel senso di "religione, "; infatti Cristo parla quivi delle opere nelle quali l'uomo deve mostrare la propria giustizia. Se lo teniamo presente, non ci meraviglieremo che in un altro passo, richiesto quali fossero i comandamenti da osservare per entrare nella vita eterna, risponda: "Non uccidere, non fornicare, non rubare, non dire falsa testimonianza, onora tuo padre e tua madre, ama il tuo prossimo come te stesso " (Mt. 19.18). L'osservanza della prima Tavola consisteva nell'adesione interiore del cuore o nelle cerimonie; il sentimento interiore non risultava, gli ipocriti infatti osservavano le cerimonie più diligentemente di tutti gli altri. Sono dunque le opere della carità che rendono la testimonianza più certa della giustizia.
Questo si trova affermato frequentemente in tutti i Profeti, tanto da essere famigliare a chi conosca anche solo mediocremente le loro dottrine. Quando esortano i peccatori al pentimento, lasciando da parte la prima Tavola e senza menzionarla, insistono sulla dirittura, la lealtà, la compassione e l'equità. Essi non dimenticano il timore di Dio, anzi ne esigono la conferma con segni sicuri. [i evidente che, parlando dell'osservanza della Legge, si soffermano alla seconda Tavola perché da essa si percepisce molto meglio l'impegno che ciascuno deve avere per la giustizia e l'integrità. Non c'è bisogno di indicare qui i passi che si presentano evidenti ovunque.
53. Qualcuno domanderà se al fine di raggiungere la giustizia il vivere bene e lealmente in mezzo agli uomini abbia più importanza del temere Dio e onorarlo con la religione. Rispondo negativamente. Dato però che nessuno può facilmente praticare la carità senza temere Dio, le opere della carità confermano la pietà religiosa dell'uomo.
Anzi, Dio non può ricevere alcun beneficio da noi, come dice il Profeta, e non ci chiede dunque di adoperarci per fargli del bene, ma ci mette alla prova con le buone opere verso il prossimo (Sl. 16.3). Non senza motivo dunque san Paolo fa consistere tutta la perfezione del credente nella carità (Ef. 3.19; Cl. 3.14). E in un altro passo la definisce "adempimento della Legge ", affermando che chi ama il prossimo ha adempiuto la Legge (Ro 13.8). In seguito la dice pienamente riassunta in questa parola; "Ama il tuo prossimo come te stesso " (Ga. 5.14). Egli non insegna nulla di diverso di quanto dice il Signore in questa frase: "Tutto quel che volete vi sia fatto dagli uomini, fatelo a loro; in questo consistono la Legge ed i Profeti " (Mt. 7.12).
È certo che la Legge ed i Profeti attribuiscono il primo posto alla fede ed al rispetto del nome di Dio, e successivamente raccomandano l'amore per il prossimo. Questo indica che ci è ordinato di osservare la rettitudine e l'equità nei riguardi degli uomini per manifestare il timore che dobbiamo al Signore.
54. Teniamo dunque fermo questo concetto: se la nostra vita è ben regolata secondo la volontà di Dio e il comandamento della Legge, essa sarà anche utile in ogni maniera ai nostri fratelli. Al contrario non si trova in tutta la Legge una sola sillaba che insegni cosa l'uomo debba fare o non fare in vista del proprio vantaggio.
Dato che gli uomini sono per natura inclini ad amare se stessi più del dovuto, non era opportuno dare loro un comandamento che li incitasse a questo amore. È evidente dunque che l'osservanza dei comandamenti è costituita non dall'amore per noi stessi ma per Dio e per il prossimo; di conseguenza vive santamente chi vive il meno possibile per se stesso e nessuno vive più disordinatamente di chi vive per se stesso non pensando che al proprio vantaggio.
Il Signore per meglio esprimere quale sentimento d'amore dobbiamo al nostro prossimo, ci rinvia all'amore per noi stessi e ce lo propone quale norma; questo deve farci riflettere. Questa similitudine non significa, come alcuni Sofisti dicono, che egli comandi a ciascuno di amare in primo luogo se stesso e successivamente il prossimo, Ha invece voluto trasferire agli altri l'amore che proviamo per noi stessi. Perciò l'Apostolo dice che la carità non cerca il proprio interesse. La motivazione su cui si fondano è priva di valore; essi dicono che la norma precede il proprio oggetto e il Signore, quindi, include la carità verso il prossimo nell'amore per noi stessi. Rispondo che il Signore non costituisce l'amore per noi stessi come una regola da cui dipenda, e a cui sia sottomesso l'amore per il prossimo. Al contrario mentre il nostro amore a causa della nostra naturale perversità si ripiega su se stesso, egli mostra che deve volgersi al di fuori rendendoci disponibili per gli altri non meno che per noi stessi.
55. Inoltre Gesù Cristo ha mostrato, nella parabola del Samaritano, che il termine "prossimo "indica anche una persona estranea del tutto (Lu 10.29-37). Non dobbiamo dunque limitare il comandamento a quanti siano legati a noi da vincoli o affinità. Non contesto che si aiutino in modo diretto coloro che più ci sono vicini. La norma di umanità implica che abbiamo relazioni reciproche, tanto più strette quanto più siamo congiunti da legami di parentela o d'amicizia o di vicinato, e questo senza offendere Dio, la cui provvidenza anzi ci conduce in questo senso. Tuttavia affermo che dobbiamo includere nel sentimento di carità tutti gli uomini in generale, senza eccezione, senza distinguere tra Greci o barbari, senza guardare se siano degni o indegni, amici o nemici: perché dobbiamo considerarli in Dio e non in se stessi. E se non li consideriamo in questo modo, non v'è da stupirsi se cadiamo in molti errori.
Se dunque vogliamo tenere la via giusta, non dobbiamo guardare gli uomini perché la loro considerazione ci condurrebbe spesso ad odiarli anziché amarli! ma guardare a Dio, il quale ci ordina di estendere l'amore che gli portiamo a tutti quanti gli uomini, di sorta che ci atteniamo sempre a questo principio: se amiamo Dio dobbiamo amare l'uomo, comunque egli sia.
56. I dottori scolastici, per ignoranza o per malizia perniciosa, hanno trasformato i comandamenti che il Signore ha dato agli Ebrei come ai cristiani, relativamente al non desiderare vendetta ed all'amare i nemici, in semplici consigli, cui, dicono, è facoltativo obbedire oppure no. Hanno affermato che solo i monaci sono tenuti ad osservarli necessariamente, ed hanno attribuito loro una giustizia più perfetta di quella dei semplici cristiani, perché essi s'impegnano ad osservare i "consigli evangelici ". Spiegano anche perché non li accolgano come "precetti ": perché sono troppo pesanti e difficili, anche per i cristiani che sono sotto la Legge della grazia.
Osano così annullare la Legge eterna di Dio che vuol farci amare il prossimo. Questa distinzione si riscontra nella Scrittura o non è piuttosto affermato il contrario, vale a dire che innumerevoli comandamenti ci ingiungono di amare il nostro nemico? Non dobbiamo saziare il nostro nemico quando avrà fame (Pr 25.2r) ? Non dobbiamo ricondurre nella strada giusta il suo bue e il suo asino quando si smarriscono? Non dobbiamo rialzarli se cadono sotto il fardello (Es. 23.4) ? Aiuteremo il bestiame dei nostri nemici, a loro vantaggio, senza provare alcun amore per loro stessi? Dio non ha detto che a lui solo appartiene la vendetta che renderà a ciascuno quel che gli è dovuto (De 32.35) ? Questo è ripetuto più chiaramente in un altro passo: "Non cercherai la vendetta e non ti ricorderai delle offese ricevute dal tuo prossimo " (Le 19.18). Ovvero si cancellano queste affermazioni della Legge oppure si riconosce che Dio, nel dare questi ordini, ha voluto essere legislatore e non "consigliere ", come essi vanno fantasticando.
57. Che valore hanno queste parole del Signore, da essi glossate in modo assurdo: "Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano; pregate per quelli che vi perseguitano; benedite quelli che vi maledicono, onde siate figliuoli del vostro Padre che è nei cieli " (Mt. 5.44) ? Non si può far a meno di concludere con Crisostomo che, in una questione così necessaria, non si tratta di esortazioni ma di precetti. Che ci resta, se il Signore ci cancella dal numero dei suoi figli?
Secondo l'opinione di questi rabbini, i monaci soltanto sono figli di Dio e possono invocare Dio quale Padre. Che avverrà allora della Chiesa? Sarà dunque confusa con i pagani e i pubblicani, dato che successivamente il Signore dice: "Se amate solo i vostri amici, quale grazia ve ne aspettate? I pagani e i pubblicani fanno lo stesso " (Mt. 5.46) ? Saremo giunti ad un bel risultato: chiamarci cristiani ed essere privati dell'eredità celeste!
Sant'Agostino fa una considerazione non meno esplicita: "Quando il Signore proibisce di fornicare "egli dice "proibisce di toccare la donna del nostro nemico come quella del nostro amico. Quando condanna il furto, non permette di derubare il bene del nostro nemico più di quello del nostro amico ". I due comandamenti di non rubare né fornicare, sono riassunti da san Paolo nella regola dell'amore: egli dice che sono compresi nella frase "Amerai il tuo prossimo come te stesso " (Ro 13.9). Bisogna dunque dire che san Paolo interpreta male la Legge, oppure dobbiamo concludere necessariamente che Dio ci ordina di amare gli amici come i nemici. Questo vuole affermare sant'Agostino.
Chi rigetta temerariamente il giogo comune a tutti i figli di Dio dimostra di essere figlio di Satana. E non so se devo stupirmi maggiormente della loro stupidità o della loro sfrontatezza nel presentare questa dottrina. Non uno solo degli Antichi ha avuto il minimo dubbio riguardo al fatto che fossero tutti quanti comandamenti. Né la situazione era diversa ai tempi di san Gregorio, dato che egli li considera tali senza esitazione.
Ma esaminiamo le loro assurde argomentazioni. Dicono: sarebbe un peso troppo grave per i cristiani; quasi non si potesse immaginare nulla di più pesante che amare Dio con tutto il nostro cuore, con tutta la nostra anima e con tutte le nostre forze! Di fronte a questo comandamento non v'è nulla che sia facile, né amare il nostro nemico né rinunciare ad ogni cupidigia di vendetta. Certamente tutto quello che è nella Legge, fino all'ultimo punto, è molto difficile per la nostra debolezza, e possiamo camminare in vita virtuosa solo grazie a Dio, quando ci dia di fare quello che ordina e ordini quello che vuole.
Il fatto che i cristiani siano sotto la legge della grazia non significa che debbano camminare disordinatamente, a briglia sciolta, ma indica che sono inseriti in Cristo, la cui grazia li libera dalla maledizione della Legge e il cui Spirito scrive la Legge nei loro cuori. San Paolo definisce impropriamente "legge "questa grazia, con il proposito di mantenere il paragone cui era ricorso confrontando l'una e l'altra; quegli scervellati invece vedono senza fondamento un gran mistero in quel termine "legge ".
58. Altrettanto fondate sono le loro affermazioni sul "peccato veniale "! Considerano tale sia l'empietà nascosta nei riguardi di Dio, che contravviene alla prima Tavola della Legge, sia la palese trasgressione dell'ultimo comandamento. Questa è la loro definizione: peccato veniale è la malvagia cupidità senza deliberato consenso, che non permane a lungo nel cuore.
Io affermo al contrario che nessuna malvagia cupidità può entrare nel cuore se non per la mancanza di quanto è richiesto dalla Legge. Ci è proibito di avere dèi stranieri. Quando l'anima mossa dalla sfiducia cerca qua e là e vacilla. Quando è mossa a cercare la propria beatitudine al di fuori di Dio, donde hanno origine questi impulsi anche i minimi, se non dal vuoto esistente nell'anima che vuole accogliere queste tentazioni?
Per non continuare a discutere, teniamo presente che ci è ordinato di amare Dio con tutto il nostro cuore, tutta la nostra anima e tutto il nostro pensiero. Se tutte le forze e tutte le parti dell'anima non sono consacrate all'amore di Dio, noi veniamo meno all'obbedienza della Legge. Quando le tentazioni, nemiche del regno di Dio, hanno la forza di scuoterci o di mettere ostacoli al nostro desiderio di obbedire a Dio, completamente e senza esitazioni, allora è segno che il suo regno non è solidamente impiantato nella nostra coscienza. Abbiamo rilevato che l'ultimo comandamento si riferisce proprio a questo.
Qualche malvagio desiderio ci ha punto il cuore? Già siamo considerati colpevoli di concupiscenza e dunque trasgressori della Legge. Infatti il Signore non ha solo proibito di macchinare ai danni del prossimo, ma anche di essere animati ed accesi dal desiderio. E dov'è la trasgressione della Legge, quivi è pronta la maledizione di Dio. Non possiamo dunque considerare esenti dalla condanna a morte neanche le concupiscenze minime.
"Quando si tratta di valutare i peccati "dice sant'Agostino "non adoperiamo bilance false per pesare come vogliamo secondo la nostra fantasia, decretando: questo è pesante, questo è leggero. Adoperiamo la bilancia della Scrittura, quella dei tesori divini, e pesiamo con essa per sapere cosa sia pesante e cosa leggero: o piuttosto, non pesiamo ma atteniamoci al peso che Dio ha stabilito ".
E cosa dice la Scrittura? San Paolo chiamando il peccato "salario di morte "rivela chiaramente che questa sciocca distinzione gli è del tutto ignota. Siamo fin troppo portati all'ipocrisia, non era proprio il caso di attizzare il fuoco e di esortarci a marcire nel nostro peccato, blandendo la nostra pigrizia!
59. Vorrei che queste persone considerassero la parola di Cristo: "Chi avrà trasgredito uno dei minimi comandamenti e avrà così insegnato agli uomini, sarà considerato nulla nel Regno dei cieli " (Mt. 5.19). Non appartengono essi a questa categoria svalutando la trasgressione della Legge e non considerandola degna di morte? Dovevano considerare non solo quel che è comandato, ma anche chi comanda: la minima trasgressione è una ribellione alla sua autorità. È forse cosa da poco per loro violare la maestà di Dio?
Se il Signore ha manifestato la sua volontà nella Legge, tutto quel che la contraddice gli è sgradito. E credono che la collera di Dio sia così debole e inefficace da non vendicarsi immediatamente? Lo ha esplicitamente dichiarato se solo fossero capaci di ascoltare la sua voce anziché i propri cavilli frivoli che oscurano la verità: "l'anima che ha peccato "egli dice "morirà " (Ez. 18.20). Analogo significato ha la citazione già ricordata di san Paolo: "Il salario del peccato è la morte " (Ro 6.23).
Costoro riconoscono la concupiscenza essere peccato, perché non possono negarlo, tuttavia sostengono non essere peccato mortale. Hanno insistito così a lungo nella loro follia, facciano ammenda almeno adesso! Se vogliono perseverare nelle proprie fantasticherie, siano abbandonati dai figli di Dio, i quali riconoscono che tutti i peccati sono mortali perché sono ribellioni alla volontà di Dio e provocano la sua ira; sono trasgressioni della Legge per le quali e preannunciata la morte eterna, senza eccezione alcuna.
Quanto ai peccati commessi dai santi e dai credenti si può dire che certo sono solo "veniali ", ma in virtù della misericordia di Dio e non per natura propria.
CAPITOLO IX
CRISTO FU CONOSCIUTO DAGLI EBREI SOTTO LA LEGGE, MA È STATO PIENAMENTE RIVELATO SOLAMENTE DALL'EVANGELO
1. Non v'è dubbio che Dio si sia dato a conoscere agli Ebrei con la stessa immagine con cui oggi appare a noi in tutta chiarezza: non invano li ha consacrati perché fossero il suo popolo eletto ed ha istituito tra loro i sacrifici e le purificazioni per dare una testimonianza efficace della propria paternità. Malachia dopo averli esortati ad osservare la Legge di Mosè ed a seguirla costantemente (dopo la sua morte vi sarebbe stata infatti una interruzione nella serie delle profezie) afferma che se perseverano, sarà loro inviato al più presto il sole della giustizia (Ma.4.2). Con queste parole vuole significare che il fine della Legge era di mantenere gli Ebrei nell'attesa di Cristo, la cui venuta era prossima: e che da lui potevano attendersi una maggior illuminazione.
Per questo motivo san Pietro dice: "i profeti hanno cercato diligentemente e hanno indagato della salvezza, oggi manifestata nell'Evangelo; ed è stato loro rivelato che non svolgevano la loro funzione per se stessi o per il loro tempo ma piuttosto per noi, ministrando i segreti che oggi ci sono rivelati dall'Evangelo " (1 Pi. 1.10-12). Non già che la loro dottrina sia stata inutile al popolo antico ed essi stessi non ne abbiano tratto profitto: ma non hanno goduto del tesoro che Dio ci ha fatto pervenire attraverso le loro mani. Oggi la grazia della quale sono stati testimoni ci è proposta direttamente davanti agli occhi e invece dell'assaggio che hanno avuto, possiamo averne una grande abbondanza.
Sebbene Cristo affermi di aver un testimone in Mosè (Gv. 5.46) , non manca di esaltare la grazia offerta in misura maggiore a noi che agli Ebrei; parlando ai suoi discepoli afferma: "Beati gli occhi che vedono quello che voi vedete e le orecchie che odono ciò che voi udite. Molti re e profeti l'hanno desiderato senza ottenerlo " (Mt. 13.16-17; Lu 10.23-24). Il fatto che Dio ci abbia preferiti ai santi padri, pur così ricchi di santità e di ogni virtù, significa rendere eccezionale omaggio alla rivelazione offertaci nell'Evangelo. Né questa affermazione è contraddetta dal passo in cui è detto che Abramo ha visto il giorno di Cristo, e ne ha gioito (Gv. 8.56). Sebbene la visione di quanto era lontano fosse oscura, tuttavia non gli è venuta meno la certezza della speranza. Ne è nata la gioia che ha accompagnato questo santo patriarca fino alla morte.
Anche la frase di Giovanni Battista: "nessuno mai ha veduto Dio, ma il Figlio che è nel seno del Padre ce l'ha comunicato "non esclude quanti erano trapassati prima dalla conoscenza della realtà che risplende nella persona di Gesù Cristo. Paragonando però la loro situazione alla nostra, ci mostra che i misteri, che essi hanno osservato da lontano come ombre nell'oscurità, ci sono manifesti davanti agli occhi. Anche l'autore dell'epistola agli Ebrei lo spiega molto bene dicendo: "Dio ha parlato nel passato in molti modi attraverso i suoi profeti, ma finalmente negli ultimi tempi attraverso suo figlio " (Eb. 1.1).
Questo figlio unigenito dunque, in cui oggi splende la gloria e la viva immagine dell'ipostasi del Padre, è stato anticamente conosciuto dagli Ebrei che erano il suo popolo (abbiamo altrove ricordato che, secondo san Paolo, egli ha liberato il popolo dall'Egitto). Rimane vero tuttavia quanto dice lo stesso Apostolo: "Dio che ha ordinato alla luce di uscire dalle tenebre, ci illumina i cuori con l'Evangelo per farci contemplare la sua gloria nel volto di Gesù Cristo " (2 Co. 4.6). Manifestandosi con questa immagine, si è reso visibile, mentre precedentemente si era mostrato solo da lungi e in modo oscuro.
Tanto più grave e deplorevole è l'ingratitudine di coloro che permangono come ciechi in pieno mezzogiorno. Per questo motivo san Paolo dice che sono accecati da Satana affinché non percepiscano la gloria di Cristo che splende nell'Evangelo senza che alcun velo interposto ne impedisca la manifestazione.
2. Definisco Evangelo la manifestazione di Gesù Cristo, evidente, che era stata espressa in modo generico sino al momento della sua venuta. L'Evangelo è definito da san Paolo "dottrina della fede "e sono d'avviso che tutte le promesse di remissione dei peccati contenute nella Legge, con le quali gli uomini sono riconciliati con Dio, ne devono essere considerate parte. Infatti san Paolo contrappone la parola "fede "a tutti i tormenti, gli spaventi e le angosce da cui è oppressa la povera anima che cerca salvezza nelle proprie opere; ne consegue che nel termine "Evangelo "sono incluse tutte le prove date da Dio della sua misericordia e della sua paterna benevolenza. Tuttavia deve essere riferito con particolare dignità alla manifestazione della grazia dataci in Gesù Cristo. Questo è comunemente accettato ed è fondato sull'autorità di Gesù Cristo e degli Apostoli. Per questa ragione gli e attribuito il compito specifico di aver predicato l'Evangelo del Regno di Dio (Mt. 4.17; 9.35). E san Marco ricorre a questa introduzione: "Principio dell'Evangelo di Gesù Cristo " (Mr. 1.1). Non c'è bisogno di elencare citazioni per dimostrare cosa sì notoria.
Gesù Cristo dunque alla sua venuta ha prodotto e chiaramente messo in luce "la vita e l'immortalità per mezzo dell'Evangelo ". Sono le parole di san Paolo (2Ti 1.10); con questo non vuol dire che i padri siano stati immersi nelle tenebre della morte, fino alla manifestazione del Figlio di Dio in carne; ma riserva questo privilegio onorifico all'Evangelo, che costituisce una ambasciata nuova ed eccezionale, mediante la quale Dio adempie quanto aveva promesso e manifesta in modo palese la verità delle sue promesse. I credenti hanno sempre constatato la verità di un'altra affermazione di san Paolo: "Tutte le promesse di Dio sono sì e amen in Gesù Cristo " (2 Co. 1.20) perché esse sono suggellate nei loro cuori, tuttavia è giusto che la manifestazione vivente, nuova e singolare abbia il riconoscimento dovuto, dato che egli ha realizzato nella sua carne tutta la nostra salvezza. li quanto dice la frase di Gesù Cristo: "D'ora in poi vedrete i cieli aperti e gli angeli di Dio che salgono e scendono sul figlio dell'uomo " (Gv. 1.51). Sebbene si riferisca particolarmente alla visione del santo patriarca Giacobbe di una scala su cui Dio era seduto, tuttavia con questo segno vuol additare l'importanza e il significato della propria venuta, che ci ha aperto il regno dei cieli per introdurci nella famiglia di Dio.
3. Ci si guardi però dalla fantasia diabolica di Serveto il quale per esaltare la grandezza della grazia di Cristo, o fingendo di esaltarla, annulla completamente le promesse, come se avessero preso fine assieme ai simboli. Ricorre al cavillo di affermare che con l'Evangelo ci è dato l'adempimento delle promesse, come se non vi fosse alcuna distinzione tra Gesù Cristo e noi. Ho già detto che Cristo non ha tralasciato né dimenticato nulla di quanto era necessario alla pienezza della nostra salvezza, è sciocco però affermare che possiamo già godere dei beni che egli ci ha procurato; falsa sarebbe in tal caso l'affermazione di san Paolo secondo cui la nostra salvezza è in speranza.
Riconosco certo che, credendo in Gesù Cristo, passiamo dalla morte alla vita. Ma dobbiamo anche ritenere la frase di san Giovanni: sebbene sappiamo di essere figli di Dio, tuttavia questo non è ancora manifesto, fino a quando saremo fatti simili a lui e lo vedremo faccia a faccia, quale egli è.
Sebbene dunque Gesù Cristo ci presenti nell'Evangelo una pienezza reale ed effettiva di tutti i beni spirituali, tuttavia il godimento ne è ancora sotto custodia e come sotto il sigillo della speranza, fino a quando, spogliati della nostra carne corruttibile, siamo trasfigurati nella gloria di colui che ci precede nell'ordine.
Nel frattempo lo Spirito Santo ci ordina di aver fiducia nelle promesse e la sua autorità sia sufficiente a far tacere i latrati di quel cane mastino. Come dice san Paolo: "Il timore di Dio ha le promesse della vita presente come di quella avvenire " (1 Ti. 4.8) : per questo si gloria di essere Apostolo di Cristo secondo la promessa di vita che è in lui (2Ti 1.1). Altrove ammonisce che abbiamo le stesse promesse rivolte anticamente ai santi padri (2 Co. 7.1). In breve, fa consistere la sostanza della nostra salvezza in questo: essere suggellati dallo Spirito della promessa; infatti non possediamo Gesù Cristo se non lo riceviamo e accettiamo, rivestiti dalle promesse dell'Evangelo. Di conseguenza, egli abita nei nostri cuori, pur essendo lontani da lui come pellegrini che camminano per fede e non per visione.
Questi due fatti si conciliano perfettamente: in Gesù Cristo possediamo quanto si riferisce alla perfezione della vita celeste e tuttavia la fede è visione di beni invisibili. Occorre solo notare che la diversità tra Legge ed Evangelo risiede nella natura o nella qualità delle promesse, perché l'Evangelo ci addita quello che anticamente è stato raffigurato in forma simbolica.
4. Nello stesso modo si denuncia l'errore di quanti oppongono la Legge all'Evangelo e considerano solo la diversità tra i meriti per le opere e la bontà gratuita di Dio, dalla quale siamo giustificati.
Riconosco che non si deve sottovalutare questo contrasto. San Paolo Cl. termine "Legge "intende spesso la regola per vivere rettamente dataci da Dio e con la quale richiede ed esige quanto gli dobbiamo, togliendoci ogni speranza di salvezza al di fuori dell'obbedienza totale: al contrario ci minaccia di maledizione se manchiamo anche di poco. L'Apostolo si esprime in questo modo per insegnarci che siamo graditi a Dio esclusivamente per la sua bontà, per cui egli ci reputa giusti e ci perdona i nostri errori, perché altrimenti l'osservanza della Legge, cui è promessa la ricompensa, non si riscontrerebbe in alcun uomo vivente. San Paolo dunque si esprime propriamente quando oppone una all'altra la giustizia della Legge e quella dell'Evangelo.
Ma l'Evangelo non si è sostituito in modo globale alla Legge al punto di recare una salvezza completamente diversa, esso ha voluto consolidare e ratificare quanto vi era promesso e unire la realtà con i simboli. Quando Gesù Cristo afferma che la Legge ed i Profeti furono in vigore fino a Giovanni non intende dire che i padri siano stati immersi nella maledizione cui sono soggetti tutti i servi della Legge, ma che erano sottoposti all'insegnamento elementare senza poter pervenire all'insegnamento più alto contenuto nell'Evangelo.
Per questo motivo san Paolo chiama l'Evangelo "potenza di Dio per la salvezza di tutti i credenti " (Ro 1.16) , e aggiunge che di esso testimoniano la Legge ed i Profeti. Nella stessa epistola, pur dichiarando che l'Evangelo costituisce la rivelazione del mistero che era stato coperto nei tempi passati, per meglio spiegarne il significato aggiunge che questo mistero è stato manifestato dagli scritti dei profeti. Dobbiamo concluderne che quando si parla della Legge nella sua pienezza, l'Evangelo non ne è distinto se non in quanto ne rappresenta una manifestazione più ampia.
Del resto in quanto Gesù Cristo ci ha fatto oggetto di un dono eccezionale di grazia è detto, a buon diritto, che, con la sua venuta, il Regno di Dio è stato stabilito sulla terra.
5. Giovanni Battista è stato collocato tra la Legge e l'Evangelo con una funzione intermedia e affine all'una e all'altro. Definendo Gesù Cristo: l'agnello di Dio, la vittima che cancella i peccati e purifica da ogni macchia, egli esprime la sostanza dell'Evangelo. Per il fatto, tuttavia che non include nella sua predicazione la potenza e la gloria incomparabile che risplendono nella risurrezione di Cristo, è considerato, per questo, inferiore agli apostoli. Questo è il senso della dichiarazione di Gesù Cristo che fra tutti i nati di donna Giovanni Battista è il maggiore e tuttavia il minimo nel regno dei cieli è maggiore di lui (Mt. 11.2). Non si tratta qui di una valutazione personale; dopo aver anteposto Giovanni a tutti i profeti, Gesù magnifica in sommo grado l'Evangelo e lo definisce, secondo la sua abitudine, Regno dei cieli.
Non bisogna considerare come dettata da falsa umiltà la dichiarazione di Giovanni agli scribi, di non essere che una voce (Gv. 1.23) , dichiarazione che lo pone così in posizione subordinata rispetto ai profeti. Egli voleva dire di non aver ricevuto da Dio un messaggio particolare ma di svolgere la funzione di araldo per far posto al gran re e preparare il popolo a riceverlo, secondo la predizione di Malachia: "Ecco mando Elia, mio profeta prima che venga il gran giorno terribile del Signore " (Ma.4.5). Infatti Giovanni, durante tutta la sua predicazione, non ha fatto altro che predisporre discepoli a Cristo, dimostrando con gli scritti di Isaia di aver ricevuto questo compito dall'alto. Sempre in questo senso è stato definito da Gesù Cristo: "lampada ardente e lucente " (Gv. 5.35) in quanto non era ancora manifestata la piena luce del giorno.
Questo non toglie che debba essere annoverato tra i predicatori dell'Evangelo: difatti ha amministrato lo stesso battesimo poi affidato agli apostoli. Ma quello che egli aveva incominciato si è realizzato solo quando il figlio di Dio, accolto nella gloria celeste, ha conferito missione e slancio agli apostoli.

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di Giovanni Calvino (1559)