LIBRO TERZO: IL MODO ATTRAVERSO IL QUALE RICEVIAMO LA GRAZIA DI CRISTO: QUALI BENEFICI CE NE PROVENGONO, E QUALI EFFETTI NE CONSEGUONO

1. Le cose dette sin qui di Gesù Cristo ci giovano mediante l'opera segreta dello Spirito Santo.
2. La fede, definizione e problemi ad essa attinenti.
3. Siamo rigenerati per mezzo della fede; Il ravvedimento.
4. Le ciance dei teologi sorbonisti sulla penitenza sono estranee alla purezza dell'evangelo. Il problema della confessione e dell'espiazione.
5. Aggiunte fatte dai papisti alle espiazioni: indulgenze e purgatorio.
6. La vita del cristiano e gli argomenti tratti dalla scrittura per esortarci ad essa.
7. Il sommario della vita cristiana: La rinuncia a noi stessi.
8. Il sommario della vita cristiana: la rinuncia a noi stessi.
9. Meditazione sulla vita futura.
10. In che modo dobbiamo usare della vita presente e dei suoi aiuti.
11. La giustificazione mediante la fede: definizione del termine e della cosa
12. Dobbiamo innalzare i nostri spiriti al tribunale di Dio, per esser veramente persuasi della giustificazione gratuita
13. I due elementi da considerare nella giustificazione gratuita
14. Inizio della giustificazione e progressi che ne derivano
15. Tutto quel che si dice per esaltare i meriti distrugge sia la lode di Dio sia la certezza della nostra salvezza
16. Coloro che si sforzano di mettere in cattiva luce questo insegnamento ricorrono, nei loro argomenti, alla calunnia
17. Accordo fra le promesse della legge e dell'evangelo
18. È sbagliato dedurre che siamo giustificati dalle opere per il fatto che Dio promette loro una ricompensa
19. La libertà cristiana
20. La preghiera è il principale esercizio della fede; per mezzo di essa riceviamo quotidianamente i benefici di Dio
21. L'elezione eterna con cui Dio ha predestinato gli uni alla salvezza e gli altri alla dannazione
22. Testimonianze della scrittura che confermano questa dottrina
23. Confutazione delle calunnie con cui, a torto, si è sempre deprezzata questa dottrina
24. L'elezione è confermata dalla vocazione di Dio; al contrario, i reprobi attirano su di sé la giusta perdizione cui sono destinati
25. La risurrezione finale

CAPITOLO 1
LE COSE DETTE SIN QUI DI GESÙ CRISTO CI GIOVANO MEDIANTE L'OPERA SEGRETA DELLO SPIRITO SANTO
1. Dobbiamo ora considerare in che modo diventiamo partecipi dei benefici che Dio il padre ha riposto nel suo figlio; questi infatti non li ha ricevuti per suo vantaggio privato, ma per soccorrere i poveri e gli indigenti.
Dobbiamo in primo luogo notare che, finché siamo fuori di Cristo e separati da lui, l'intera sua opera e sofferenza per la salvezza del genere umano risulta inutile e priva di rilievo per noi. Perché ci trasmetta i beni di cui il Padre l'ha arricchito e colmato, occorre dunque che diventi nostro ed abiti in noi. Per questo è definito nostro "capo" (Ef. 4.15), e "primogenito di molti fratelli" (Ro 8.29); ed è anche affermato che siamo innestati in lui (Ro 11.17) e ce ne rivestiamo (Ga 3.27) , poiché nulla di ciò che possiede ci appartiene come abbiamo detto, fintantoché non diventiamo uno con lui.
Quantunque otteniamo questo mediante la fede, tuttavia costatiamo che non tutti accolgono, indifferentemente, la comunicazione di Gesù Cristo offertaci dall'Evangelo; siamo perciò spinti a cercarne più in alto il motivo e a considerare la potenza e il segreto operare dello Spirito Santo, origine del nostro fruire di Cristo e dei suoi benefici.
Ho già trattato ampiamente della divinità ed essenza eterna dello Spirito Santo. I lettori si accontentino per il momento dell'assunto seguente: Gesù Cristo è venuto con acqua e sangue e lo Spirito testimonia di lui affinché la salvezza che ci ha procurato non svanisca senza che ne beneficiamo. Infatti san Giovanni, come fa riferimento a tre testimoni in cielo, il Padre, la Parola e lo Spirito, così ne cita tre in terra: acqua, sangue e Spirito (1 Gv. 5.7-8). E non invano la testimonianza dello Spirito è ripetuta, testimonianza che sentiamo impressa nei nostri cuori come un suggello, per confermare il lavacro ed il sacrificio insito nella morte del figlio di Dio. Per la medesima ragione san Pietro afferma essere i credenti eletti mediante la santificazione dello Spirito, nell'obbedienza e aspersione del sangue di Cristo (1 Pi. 1.2). Con queste parole egli dichiara che le anime nostre sono, mediante l'incomprensibile irrorazione dello Spirito, purificate dal sangue sacro che è stato sparso una volta per tutte, affinché questo non sia stato compiuto invano. Perciò san Paolo, parlando della nostra purificazione e della nostra giustizia, afferma che otteniamo entrambe nel nome di Gesù Cristo e mediante lo Spirito del nostro Dio (1 Co. 6.2).
Riassumendo: lo Spirito Santo costituisce il legame mediante il quale il figlio di Dio ci unisce a sé con efficacia. A questo si riferisce tutto quel che abbiamo detto riguardo alla sua unzione, nel libro precedente.
2. Affinché questo fatto, singolarmente degno di essere conosciuto, sia meglio percepito, ricordiamo che Gesù Cristo è venuto ricolmo di Spirito Santo per separarci dal mondo e accoglierci nella speranza dell'eredità eterna. Perciò è detto "Spirito di santificazione " (Ro 1.4) , in quanto non solo ci dà forza e ci mantiene mediante la forma generale della sua azione che riscontriamo sia nel genere umano sia negli altri animali, ma costituisce per noi la radice e la semenza della vita eterna. I Profeti magnificano il regno di Gesù Cristo proprio per il fatto che egli doveva recare una maggiore elargizione di Spirito Santo. Il passo di Gioele è notevole fra tutti: "Spanderò in quel giorno il mio Spirito su ogni carne, dice il Signore " (Gl. 2.28). Quantunque infatti sembri limitare i doni dello Spirito alla funzione profetica, egli intende pure, in forma figurata, che Dio, mediante la luce del suo Spirito, si formerà dei discepoli di coloro che per l'innanzi erano ignoranti e privi di qualsiasi gusto o sapore della dottrina celeste.
Poiché Dio il padre ci largisce il suo Spirito mediante il Figlio pur avendone posto in lui tutta la pienezza per farlo ministro e dispensatore della sua liberalità nei nostri riguardi, per queste due ragioni lo Spirito è detto ora "del Padre ", ora "del Figlio ". "Non siete più nella carne "dice san Paolo "ma nello Spirito, in quanto lo Spirito di Dio abita in noi. Ma colui che non ha lo Spirito di Cristo non gli appartiene " (Ro 8.9). Volendoci garantire il nostro completo rinnovamento, dice: "Colui che ha risuscitato Gesù Cristo dai morti, vivificherà i nostri corpi mortali mediante il suo Spirito, che abita in noi " (Ro 8.2). Non vi è infatti alcuna assurdità nell'attribuire al Padre la lode dei suoi doni, poiché ne è l'artefice, dicendo la stessa cosa di Gesù Cristo, in quanto questi doni gli sono stati affidati in deposito, perché li elargisse ai suoi come gli pare. Per questo invita a se tutti gli assetati, affinché bevano (Gv. 7.37), e san Paolo dice che lo Spirito è dato a ciascuno dei membri secondo la misura del dono di Cristo (Ef. 4.7).
Dobbiamo inoltre considerare che è chiamato "Spirito di Cristo "; non in quanto figlio eterno di Dio unito, nella sua essenza divina, in un medesimo Spirito Cl. Padre, ma in quanto Mediatore, poiché la sua venuta risulterebbe inutile se non fosse sceso a noi munito di tale potenza. In questo senso è chiamato "secondo Adamo ", venuto dal cielo in Spirito vivificante (1 Co. 15.45). Infatti san Paolo paragona la vita particolare che Gesù Cristo ispira ai suoi credenti per unirli a se, alla vita dei sensi, comune anche ai reprobi. Similmente, quando invoca sui credenti l'amore di Dio e la grazia di Cristo, aggiunge il dono dello Spirito, senza il quale mai nessuno gusterà né il favore paterno di Dio né i benefici di Cristo, come leggiamo in un altro testo: "L'amore di Dio è sparso nei nostri cuori dallo Spirito Santo che ci viene dato " (Ro 5.5).
3. Ci sarà utile a questo punto prendere nota dei titoli che la Scrittura attribuisce allo Spirito, quando tratta dell'inizio e dell'intero corso relativo alla restaurazione della nostra salvezza.
In primo luogo è detto "Spirito di adozione " (Ro 8.15) , in quanto ci è testimone della benevolenza gratuita con cui il Padre celeste ci accoglie in virtù del suo Figlio e, attestandoci che siamo figli di Dio, ci dà fiducia e coraggio per pregare; anzi ci pone in bocca le parole, affinché possiamo gridare con fiducia: "Abba, Padre " (Ga 4.6).
Per la medesima ragione è detto "pegno e suggello della nostra eredità " (2 Co. 1.22) , in quanto ci vivifica dal cielo, quantunque siamo pellegrini in questo mondo e simili a poveri morti; ci attesta pure che la nostra salvezza, essendo nelle mani di Dio, è al riparo da ogni pericolo.
Da questo deriva l'altro titolo, quando è detto "vita ", a causa della giustizia (Ro 8.10). Irrorandoci con la sua grazia invisibile, ci rende atti a produrre frutti di giustizia, così come la pioggia feconda la terra con la sua umidità; perciò è sovente detto "acqua ", come in Isaia: "Voi tutti che siete assetati, venite alle acque! " (Is. 55.1); "Spanderò il mio Spirito su colei che ha sete, e farò scorrere i fiumi sulla terra arida " (Is. 44.3). A questo corrisponde l'affermazione di Gesù Cristo che ho citato sopra: "Se qualcuno ha sete, venga a me! " (Gv. 7.37). È altresì indicato con questo termine, per la forza che ha di purificare e nettare, come in Ezechiele, dove Dio promette acque pure "per lavare tutte le impurità del suo popolo " (Ez. 36.25).
Irrorandoci del flusso della sua grazia ci ridà vigore e ci rianima, dunque deriva da questo effetto anche il titolo di "olio "e di "unzione "che gli è dato (1 Gv. 2.20-27).
D'altra parte, distruggendo e bruciando le nostre concupiscenze peccaminose, simili a immondizie e superfluità, infiamma i nostri cuori di amore per Dio e desiderio di servirlo: per questo è, a buon diritto, definito "fuoco " (Lu 3.16).
Ci è insomma presentato come la sola sorgente donde fluiscono sui noi tutte le ricchezze celesti, ovvero come la mano di Dio mediante la quale egli esercita la sua potenza (Gv. 4.14). Mediante la sua ispirazione siamo rigenerati alla vita celeste, per non essere più spinti o guidati da noi stessi ma dalla sua ispirazione e dalla sua opera, talché se c'è in noi un qualche bene, è unicamente frutto della sua grazia: senza di lui tutto lo splendore della nostra virtù risulta nullo, in quanto non vi è in noi che cecità di spirito e perversità di cuore.
È già stato detto chiaramente che Gesù Cristo è per noi una realtà inutile finché non sia messo in relazione Cl. suo Spirito che ci guidi a lui; senza questo non possiamo far altro che considerare Gesù Cristo da lungi come essendo fuori di noi, oggetto di fredda speculazione. Ma sappiamo che non giova se non a coloro di cui e capo e fratello primogenito, i quali anzi sono rivestiti di lui (Ef. 4.15; Ro 8.29; Ga .3.27). È unicamente questo congiungimento a far sì che non sia venuto invano per noi, Cl. nome di Salvatore.
A questo stesso scopo tende l'unione sacra mediante cui siamo fatti carne della sua carne e ossa delle sue ossa, anzi uno con lui. Si unisce a noi unicamente mediante il suo Spirito, e ci fa sue membra per grazia e potenza di esso (Ef. 5.30) , per legarci a se e per essere per parte sua posseduto da noi.
4. In quanto però la fede è la sua opera essenziale, la maggior parte di quel che leggiamo nella Scrittura circa la sua potenza e il suo operare si riferisce a questa fede, mediante la quale egli ci conduce alla luce dell'Evangelo; come dice san Giovanni, questa dignità è concessa a tutti coloro che credono di essere resi figli di Dio in Cristo, i quali non son nati da carne e sangue, ma da Dio (Gv. 1.13). Contrapponendo Dio alla carne e al sangue, dimostra trattarsi di un dono celeste e sovrannaturale che gli eletti ricevano Gesù Cristo mediante la fede, poiché altrimenti rimarrebbero ancorati alla loro incredulità. La risposta che Gesù Cristo diede a Pietro ne è una prova: "Non la carne e il sangue ti hanno rivelato questo, ma il Padre mio che è nel cielo " (Mt. 16.17). Accenno solo brevemente a queste cose, in quanto sono state ampiamente sviluppate altrove.
Si inserisce bene in questo dibattito la parola di san Paolo: i credenti sono suggellati dallo Spirito della promessa (Ef. 1.13). Egli intende dire che lo Spirito è il maestro interiore, mediante il quale penetra in noi e trapassa le nostre anime, la promessa della salvezza che altrimenti non farebbe che battere l'aria o risuonare alle nostre orecchie. Similmente quando dice che i fratelli di Tessalonica sono stati eletti da Dio mediante la santificazione dello Spirito e nella fede della verità (2 Ts. 2.13) , con tale riferimento ci ricorda che la fede non può avere altra provenienza all'infuori dello Spirito. San Giovanni lo spiega altrove in modo più ampio, dicendo: "Sappiamo che egli dimora in noi, dallo Spirito che ci ha dato" (1 Gv. 3.24); e: "Da questo sappiamo che dimoriamo in lui ed egli in noi: perché ci ha dato il suo Spirito " (1 Gv. 4.13). Perciò il Signor Gesù, volendo rendere i suoi discepoli capaci di afferrare la sapienza celeste, promette loro lo Spirito della verità, che il mondo non può accogliere (Gv. 14.17) , attribuendogli il compito particolare di suggerire e ricordare loro quel che aveva già insegnato; anche la luce si presenterebbe invano ai ciechi se questo Spirito di intelligenza non aprisse gli occhi della mente; a ragione lo si può chiamare chiave, mediante la quale i tesori del regno dei cieli ci sono aperti; e la sua illuminazione può essere definita la vista della anime nostre.
Ecco perché san Paolo loda tanto il ministero dello Spirito (2 Co. 3.6) e questo equivale a dire che la predicazione reca con se vigore spirituale perché i Dottori predicherebbero invano se Gesù Cristo, il sommo maestro, non operasse dall'interno per attrarre coloro che gli sono affidati dal Padre (Gv. 6.44).
Ogni perfezione di salvezza è in Gesù Cristo ed egli, per rendercene partecipi, ci battezza di Spirito Santo e di fuoco (Lu 3.16) , illuminandoci nella fede del suo Evangelo e rigenerando i nostri cuori, tanto da farci creature nuove; infine ci purifica da ogni nostra macchia e sozzura, affinché siamo consacrati a Dio quali templi santi.
CAPITOLO 2
LA FEDE, DEFINIZIONE E PROBLEMI AD ESSA ATTINENTI
1. Tutto questo sarà facile da intendere quando avremo fornito una più chiara definizione della fede per ben specificare ai lettori quale ne sia la natura e la forza.
È, opportuno ricordare quanto abbiamo detto fin qui: Dio, nell'ordinarci mediante la Legge quanto è da fare, ci minaccia, se sgarriamo minimamente, Cl. giudizio della morte eterna e così ci imbriglia come se dovesse saettare sul nostro capo.
Se guardiamo a noi stessi e consideriamo solamente quel che abbiamo meritato e di quale condizione siamo degni, non ci rimane neppure un briciolo di speranza: come povera gente respinta da Dio siamo affranti in dannazione, poiché l'osservare la Legge come richiesto, non solo è per noi difficile, ma oltrepassa le nostre forze e le nostre facoltà.
In terzo luogo abbiamo dichiarato che esiste un solo mezzo per sottrarci ad una calamità così disastrosa e trarci fuori: Gesù Cristo essendo il Redentore per mano del quale il padre celeste, pietoso verso di noi secondo la sua misericordia infinita, ci ha voluti soccorrere, afferriamoci a questa misericordia con una fede ferma e affidiamoci ad essa con una speranza costante per perseverare.
Rimane ora da considerare attentamente in che consiste questa fede mediante la quale tutti coloro che Dio adotta quali figli entrano in possesso del Regno di Dio; poiché una opinione o anche una convinzione generica non basterebbe a fare cosa sì grande. Dobbiamo tanto più applicarci con cura ad interrogarci sulla natura e sulle reali caratteristiche della fede, se consideriamo che la gran parte della gente è, su questo punto, come inebetita. Nell'udire questo termine, infatti, immaginano semplicemente una volontà di aderire alla storia evangelica.
Quando si disputa della fede, nelle scuole teologiche, dicendo in modo esplicito che Dio ne è oggetto, si smarriscono poi qua e là le povere anime in vane speculazioni anziché indirizzarle ad una meta sicura. Poiché Dio abita in una luce inaccessibile (1 Ti. 6.163, è richiesto che Gesù Cristo ci venga incontro per condurci ad essa. Perciò chiama se stesso "la luce del mondo " (Gv. 8.12) , e in un altro passo "la via, la verità e la vita " (Gv. 14.6) , perché nessuno viene al Padre, che è fonte di vita, se non per mezzo di lui, per il fatto che lui solo conosce il Padre e che l'ufficio suo è di rivelarlo ai credenti (Lu 10.22).
Seguendo questo stesso argomento san Paolo dichiara di non aver stimato nulla degno di conoscenza se non Gesù Cristo (1 Co. 2.2) , e nel libro degli Atti non si glorifica che del fatto di aver conosciuto la fede in Gesù Cristo. In un altro passo menziona la parola rivelatagli: "Ti manderò fra i popoli, affinché ricevano remissione dei loro peccati, e siano partecipi dell'eredità dei santi per mezzo della fede che è in me " (At. 26.17-18). Altrove dice che la gloria di Dio ci è visibile nel volto di Cristo e che quello è lo specchio ove ci è rivelata ogni conoscenza (2 Co. 4.6).

È vero che la fede si rivolge ad un Dio unico, ma occorre aggiungere il secondo elemento: credere in Gesù Cristo da lui inviato, perché Dio sarebbe nascosto ben lungi da noi se il Figlio non ci illuminasse con i suoi raggi. Anche a quel fine il Padre ha posto in lui tutti i suoi beni per rivelarsi nella persona di lui e con questa comunicazione manifestare la vera immagine della sua gloria. Come è stato detto, che occorre essere attratti dallo Spirito per essere incitati a cercare il Signore Gesù, così d'altra parte ci è d'uopo essere avvertiti di non cercare il Padre all'infuori di questa immagine.
Di ciò Agostino parla molto a proposito, dicendo che per ben orientare la nostra fede dobbiamo sapere dove dobbiamo andare. Poi subito conclude che la via per preservarci da ogni errore è di conoscere colui che è Dio e uomo. Poiché tendiamo a Dio e a lui siamo condotti mediante l'umanità di Gesù Cristo.
Del resto san Paolo, facendo menzione della fede che abbiamo in Dio, non intende negare ciò che tanto spesso ripete circa la fede che ha tutta la sua forza in Gesù Cristo; e san Pietro congiunge molto bene i due elementi dicendo che per mezzo di Cristo crediamo in Dio (1 Pi. 1.21).
2. Questo errore, come infiniti altri, deve essere imputato ai teologi della Sorbona che, quanto più hanno potuto, hanno coperto Gesù Cristo d'un velo; se infatti non guardiamo direttamente a lui, non possiamo che perderci in molti labirinti. Oltre al fatto che con le loro oscure definizioni sminuiscono la potenza della fede e quasi la riducono a nulla, hanno elaborato una immaginazione di fede che definiscono implicita o avvolta, termine Cl. quale coprono la più greve ignoranza che si possa trovare e ingannano il povero popolo conducendolo a rovina.
Anzi, per parlare apertamente e sinceramente, queste fantasie non solo soffocano la vera fede, ma l'annientano. Forse la fede consisterebbe nel non intendere nulla, sottomettendo la propria intelligenza alla Chiesa? Certo la fede non consiste in ignoranza ma in conoscenza, e non solo di Dio, ma anche del suo volere. Non otteniamo salvezza per il fatto che siamo disposti ad accogliere come vero tutto ciò che la Chiesa ha definito o perché le affidiamo l'incarico di interrogare e conoscere, ma in quanto sappiamo che Dio ci è padre benevolo per mezzo della riconciliazione fatta in Cristo ed in quanto riceviamo Cristo come datoci per essere giustizia, santificazione, vita. È mediante questa conoscenza, e non affatto sottomettendo il nostro spirito a cose ignote, che otteniamo di entrare nel regno celeste. L'Apostolo, dicendo che si crede Cl. cuore per ottenere giustizia, e si professa con le labbra per avere la salvezza (Ro 10.10) , non intende che basti credere implicitamente ciò che non si capisce, ma richiede una limpida e pura conoscenza della bontà di Dio su cui si fonda la nostra giustizia.
3. Non nego affatto che, avvolti dall'ignoranza, molte cose ci siano nascoste e lo siano fino a che, spogliati di questo corpo mortale, saremo più vicini a Dio; riguardo a quelle cose considero che nulla sia più giovevole che sospendere il nostro giudizio, pur mantenendo la nostra decisione di rimanere uniti alla Chiesa. Ma è una beffa il voler coprire con l'etichetta "fede "una pura ignoranza. Infatti la fede consiste in conoscenza di Dio e di Cristo (Gv. 17.3) , non in riverenza verso la Chiesa. Vediamo quale abisso hanno spalancato coi termini implicita o avvolta, come dicono: gli ignoranti accolgono tutto quel che viene loro offerto sotto l'autorità della Chiesa, senza alcun discernimento, anche i più grossolani errori che vengono loro presentati. Questa superficialità tanto sconsiderata, quantunque faccia cadere l'uomo in rovina, è pur tuttavia scusata da costoro, in quanto non crede nulla in modo determinato, ma aggiunge sempre la condizione: se tale è la fede della Chiesa. In tal modo sembra quasi possibile tenere la verità nell'errore, la luce nel buio e la conoscenza nell'ignoranza.
Anziché fermarci a confutare queste follie, esortiamo solo i lettori a paragonarle al nostro insegnamento, poiché la chiarezza stessa della verità fornirà argomenti sufficienti per confondere costoro. Per loro non costituisce problema sapere se la fede è avvolta in molte tenebre di ignoranza; ritengono che coloro i quali si abbrutiscono nella loro ignoranza e anzi si vantano della loro stoltezza, credono in modo esatto e come è richiesto, in quanto si adeguano all'autorità e giudizio della Chiesa, senza sapere nulla. Come se la Scrittura non insegnasse sempre che l'intelligenza è connessa alla fede.
4. Riconosciamo che la fede, finché siamo pellegrini nel mondo, è sempre oscurata, non solo perché molte cose ci sono ancora sconosciute ma perché, annebbiati da molti errori, non intendiamo tutto ciò che sarebbe desiderabile. La sovrana saggezza dei più perfetti consiste nel trar profitto e nell'andare innanzi rendendosi docili e mansueti. San Paolo esorta dunque i credenti, se in qualche cosa dissentono l'uno dall'altro, ad aspettare più ampia rivelazione (Fl. 3.15). L'esperienza ci insegna che non comprendiamo quanto sarebbe desiderabile, finché non saremo spogliati della nostra carne. Quotidianamente, leggendo la Scrittura, incontriamo molti passi oscuri che ci accusano e convincono di ignoranza; con queste redini Dio ci mantiene modesti, assegnando ad ognuno una certa porzione di fede, affinché il più grande dottore ed il più capace siano pronti a lasciarsi istruire.
Abbiamo parecchi esempi belli e lodevoli di tale fede implicita nei discepoli del nostro Signor Gesù, prima che fossero pienamente illuminati. Vediamo quanto sia stato loro difficile gustare i primi elementi, come hanno esitato e avuto scrupolo in cose molto piccole, e quantunque pendessero dalle labbra del loro maestro, quanto poco abbiano progredito. Per di più, venuti al sepolcro, la risurrezione di cui tanto avevano udito parlare fu per loro come un sogno. Dato che Gesù Cristo aveva già reso loro testimonianza che credevano, non sarebbe lecito affermare che erano del tutto privi di fede; se non fossero stati convinti che Gesù Cristo doveva risuscitare, ogni loro desiderio di seguirlo sarebbe svanito. E neanche le donne sono state spinte da superstizione per ungere di aromi un corpo morto in cui non fosse stata risposta qualche speranza di vita; quantunque prestassero fede alle parole del Figlio di Dio, il quale sapevano essere verace, tuttavia l'ignoranza che occupava ancora il loro spirito ha mantenuto la loro fede avvolta in tenebre, al punto da lasciarli smarriti. Per questo è detto che avendo costatato de visu la verità delle parole del nostro Signor Gesù, finalmente hanno creduto; non che essi abbiano cominciato a credere allora, ma perché il seme di fede che era come morto nei loro cuori ha ripreso vigore per fruttificare. C'era dunque vera fede in loro, ma implicita, perché avevano accolto con il dovuto rispetto il Figlio di Dio quale loro unico maestro. In seguito, ammaestrati da lui, lo considerarono autore della loro salvezza. Infine credettero che era venuto dal cielo per raccogliere in eredità immortale, per grazia di Dio suo padre, coloro che gli sarebbero stati discepoli autentici.
La conferma migliore e più personale di ciò, risiede nel fatto che ognuno riscontra sempre in se una certa incredulità mista alla fede.
5. Possiamo parimenti definire fede, ciò che propriamente non è che una preparazione ad essa.
Gli evangelisti narrano che molti hanno creduto, unicamente perché colpiti dai miracoli di Gesù Cristo, e lo hanno ammirato senza considerarlo altro che il Redentore promesso, pur avendo conosciuto poco o nulla dell'insegnamento dell'Evangelo. Il rispetto che li ha vinti e sottomessi a Gesù Cristo è fregiato del titolo di fede, quantunque non fosse che un piccolo inizio. Così l'ufficiale di corte che aveva creduto alla promessa di Gesù Cristo concernente la guarigione del figlio, tornato a casa credette daccapo, secondo san Giovanni (Gv. 4.53) , senza dubbio perché, fin dal primo momento ritenne oracolo celeste quanto udito dalla bocca di Gesù Cristo; poi si è sottomesso alla autorità di lui, per accogliere il suo insegnamento. Ma bisogna ricordare che si è reso così docile e disposto ad apprendere, che il termine "credere ", nel primo punto di questo passo di Giovanni, indica una fede di tipo particolare, nel secondo punto va oltre, e colloca quell'uomo nella schiera dei discepoli del nostro Signore, i quali facevano professione di aderire a lui.
San Giovanni ci propone un esempio affine quando ci parla dei Samaritani i quali, avendo prestato fede alle parole della donna, accorrono a Gesù Cristo con ardore: questo è un inizio di fede. Ma dopo averlo udito dicono: "Non crediamo più per la tua parola, ma in quanto l'abbiamo udito e sappiamo che è il salvatore del mondo " (Gv. 4.42).
Risulta da queste testimonianze che coloro che non si sono ancora nutriti dei primi elementi, per il fatto stesso di essere inclini e indotti ad ubbidire a Dio, sono chiamati credenti, non in senso proprio ma in quanto Dio, con la sua liberalità, fa questo onore al loro sentimento.
Del resto tale docilità desiderosa di apprendere è ben diversa da quella greve ignoranza in cui giacciono e dormono coloro che si contentano della loro fede implicita, quale i papisti la concepiscono. Se san Paolo condanna rigorosamente coloro che, imparando, non giungono mai alla conoscenza della verità (2Ti 3.7) , di quanto maggior obbrobrio e vituperio sono degni coloro che deliberatamente desiderano non sapere?
6. Tale è dunque la vera conoscenza di Gesù Cristo: riceverlo quale ci è offerto dal Padre, cioè rivestito dal suo Evangelo. Destinato ad essere meta della nostra fede, non tenderemo mai rettamente a lui, se non guidati dall'Evangelo. Di fatto è qui che i tesori della grazia ci sono aperti, poiché se ci fossero chiusi, Gesù Cristo non ci gioverebbe molto. Ecco perché san Paolo unisce dottrina e fede con un legarne indissolubile, dicendo: "Non è così che avete imparato a conoscere Cristo, se pur siete stati ammaestrati secondo la sua verità " (Ef. 4.20-21). Non che io limiti la fede all'Evangelo, senza riconoscere che quanto hanno insegnato Mosè ed i Profeti era sufficiente a ben fondarla; ma l'Evangelo ne dà una più ampia rivelazione e san Paolo lo chiama, a ragione, "insegnamento di fede ". Pertanto, in un altro passo, afferma che la Legge è stata abolita con l'avvento della fede (Ro 10.4) , indicando così il modo nuovo di insegnare portato dal figlio di Dio, il quale ha illustrato la misericordia del Padre suo molto più chiaramente, ed essendoci stato costituito maestro e dottore, ci ha attestato in modo più familiare la nostra salvezza. Ma il ragionamento risulterà più facile se discendiamo per gradi, dal generale al particolare.
In primo luogo ricordiamoci che esiste una relazione tra la fede e la Parola, da cui la prima non può essere separata né distolta più di quanto lo possano essere i raggi dal sole che li produce. Perciò Dio proclama per bocca di Isaia: "Ascoltatemi e la vostra anima vivrà " (Is. 55.3). Anche san Giovanni attesta che tale è la sorgente della fede, dicendo: "Queste cose sono scritte affinché crediate " (Gv. 20.31). E il Profeta, volendo esortare il popolo a credere, dice: "Oggi, se udite la sua voce " (Sl. 95.8). In breve, il termine "udire "viene comunemente inteso come sinonimo di credere. In conclusione, non invano Dio distingue, con questo segno, i figli della Chiesa dagli estranei: egli li ammaestrerà per averli discepoli (Is. 53.2). Vi corrisponde il fatto che san Luca adopera qua e là come equivalenti i due termini: credenti e discepoli, estendendo questo titolo anche a una donna (At. 6.1; 9.1.10.19.38; 11.26.29; 13.52; 14.20).
Perciò se la fede si sposta, anche di poco, dall'obbiettivo a cui deve mirare, perde la sua natura e diventa incerta credulità ed errore ondeggiante in molteplici direzioni. Questa stessa Parola rappresenta il fondamento che la sostiene e su cui poggia; ma non appena se ne allontana, subito incespica. Si elimini dunque la Parola, e non rimarrà più fede alcuna.
Non affrontiamo qui il problema di sapere se il ministero dell'uomo sia o no necessario, per seminare la Parola da cui nasce la fede; lo tratteremo in altra sede. Ma diciamo che la Parola, da qualunque parte ci venga recata, è uno specchio in cui la fede deve guardare e contemplare Dio. Sia che, per questo, Dio si giovi del servizio dell'uomo, sia che operi per sua sola forza, si presenta sempre con la sua parola a coloro che intende attrarre a se. Perciò anche san Paolo definisce la fede "obbedienza "che si rende all'Evangelo (Ro 1.5). Altrove loda il servizio e la prontezza di fede dei Filippesi (Fl. 2.17). L'intelligenza della fede non consiste solo nella certezza che esiste un Dio ma essenzialmente nell'intendere quale sia la sua volontà a nostro riguardo. Infatti non ci è solo utile conoscere quale egli sia, in se, ma quale vuole essere per noi.
Abbiamo dunque già acquisito questo fatto: la fede è una conoscenza della volontà di Dio tratta dalla sua Parola. Il suo fondamento è la convinzione che si ha della verità divina; se il tuo cuore non ne ha certezza assoluta, l'autorità della Parola è ben debole, o del tutto nulla, in te. Inoltre non basta credere che Dio è veritiero, che non può mentire o ingannare, se non hai la certezza che tutto quanto procede da lui è verità ferma ed inviolabile.
7. Ma dato che il cuore dell'uomo non è confermato nella fede da qualsiasi parola di Dio, è necessario individuare ciò che la fede propriamente scorge nella Parola. Fu la voce di Dio che disse ad Adamo: "Per certo tu morrai "; fu la voce di Dio a dire a Caino: "Il sangue di tuo fratello grida a me dalla terra, " (Ge 2.17; 4.10). Ma queste affermazioni non potevano che scuotere la fede, non certo consolidarla.
D'altra parte, non neghiamo che il compito della fede consista nel dare adesione alla verità di Dio ogniqualvolta egli parli, e qualsiasi cosa dica, e in qualsiasi modo; ma cerchiamo ora ciò che la fede trova in quella Parola per scoprire in essa appoggio e garanzia. Se la nostra coscienza non vede altro che indignazione e vendetta, come non tremerà d'orrore? E quando abbia orrore di Dio, come non lo fuggirà? Ora la fede deve cercare Dio, non fuggirlo. Risulta dunque che non siamo ancora in possesso di una definizione soddisfacente, dato che non si può ritenere fede il conoscere ogni parola di Dio.
Che accadrà se sostituiamo questa volontà, il cui messaggio è a volte triste o minaccioso, con benevolenza e misericordia? In questo modo ci avviciniamo certo maggiormente all'essenza della fede. Infatti siamo indotti con dolcezza a ricercare Dio dopo aver conosciuto che la nostra salvezza è in lui; egli ce lo certifica dichiarandoci che ne prende cura. Ci è necessario dunque avere la promessa della sua grazia, con cui ci attesta che ci è padre propizio, perché senza questa nessuno può accostarsi a lui e il cuore dell'uomo non può trovare stabilità che in essa
Secondo questo pensiero, misericordia e verità appaiono spesso associate nei Sl. , in ragione di un accordo indissolubile, poiché a nulla gioverebbe sapere che Dio è veritiero se non ci attraesse a se quasi seducendoci con la sua clemenza. Certo non saremmo in grado di comprendere la sua misericordia, se non ce la offrisse di sua voce. Ne sono esempi le affermazioni: "Ho predicato la tua verità e la tua salvezza; non ho nascosto la tua bontà e verità; così come la tua bontà e verità mi proteggono " (Sl. 40.11-12); "La tua misericordia tocca i cieli, la tua verità va fino alle nuvole " (Sl. 36.6); "Tutte le vie di Dio sono clemenza e verità per coloro che serbano la sua alleanza " (Sl. 25.10); "La sua misericordia è moltiplicata su di noi, e la sua verità dimora in eterno " (Sl. 117.2); "Io celebrerò il tuo nome, per la tua misericordia e verità " (Sl. 138.2).
Tralascio quel che ne dicono spesso i Profeti: che Dio, in quanto è benigno, è anche fedele alle sue promesse. Poiché sarebbe temerarietà da parte nostra pensare che Dio ci sia propizio, se non ne desse lui stesso testimonianza, prevenendoci con l'orientarci, affinché la sua volontà non sia per noi dubbia o oscura. Abbiamo già visto che egli ha stabilito suo figlio quale unico pegno del suo amore e che senza di lui non apparirebbero che segni di ira e odio in cielo e in terra.
Inoltre, dato che la conoscenza della bontà di Dio non può avere grande importanza se non nella misura in cui essa ci fa riposare in quella bontà, è da escludersi ogni intelligenza mista a qualche dubbio, la quale non si mantenga ferma, ma vacilli come mettendola in discussione. L'intelligenza dell'uomo, accecata e oscurata, è ben lungi dall'essere così penetrante e acuta da conoscere la volontà di Dio, e il cuore, solito a vacillare in dubbi ed incertezze, non può essere rassicurato sì da riposare in tale convincimento. Occorre dunque che la mente dell'uomo sia illuminata da altra luce ed il cuore riceva conferma, prima che la Parola di Dio ottenga in noi piena adesione.
Una piena definizione della fede è dunque questa: si tratta di una conoscenza stabile e certa della buona volontà di Dio nei nostri confronti, conoscenza fondata sulla promessa gratuita data in Gesù Cristo, rivelata al nostro intendimento e suggellata nel nostro cuore dallo Spirito Santo.
8. Prima di proseguire è necessario porre qualche premessa per sciogliere alcune difficoltà che altrimenti potrebbero ostacolare il lettore e ritardarlo.
Dobbiamo in primo luogo refutare la distinzione che ha sempre avuto corso tra i Sorbonisti, concernente la fede, che chiamano formata e informe. Essi immaginano infatti che coloro che non sono toccati da qualche timore di Dio o da sentimenti di pietà, non mancano di credere tutto quanto è necessario alla salvezza; quasi non fosse lo Spirito Santo, illuminando il nostro cuore alla fede, ad essere testimone della nostra adozione. Quantunque vogliano, con loro presunzione e contro tutta la Scrittura, che tale conoscenza sia fede, non occorrerà dibattere molto o disputare più a lungo contro la loro definizione, a condizione che quanto la Scrittura ce ne dice sia ben spiegato. Questo ci farà vedere che, su un argomento così elevato, essi, più che parlare, grugniscono scioccamente e animalescamente. Ne ho già menzionato una parte e ne menzionerò appresso il rimanente.
Per l'istante dirò che non si potrebbe immaginare nulla più a sproposito di quel loro sogno. Considerano che l'assenso con cui coloro che disprezzano Dio accetteranno per vero ciò che è contenuto nella Scrittura, debba essere reputato fede. Occorrerebbe in primo luogo chiarire se ognuno chiama a se la fede di sua iniziativa, o se è lo Spirito Santo che, per suo mezzo, ci attesta la nostra adozione. Per cui parlano da fanciulli quando si domandano se la fede, formata dalla carità sopraggiunta, è una stessa fede o una fede diversa e nuova. Un simile scherzo evidenzia il fatto che essi non hanno mai avuto idea del dono singolare dello Spirito mediante il quale la fede ci è ispirata. In fatti, l'atto iniziale della fede contiene in se la riconciliazione con cui l'uomo accede a Dio. Se valutassero attentamente l'affermazione di san Paolo, che si crede con il cuore alla giustizia (Ro 10.10) , non si divertirebbero più a definire la fede per mezzo di virtù sopravvenienti. Qualora non avessimo altro argomento, questo dovrebbe bastare a risolvere ogni dubbio: l'assentire a Dio, come ho già detto e più a lungo dirò, risiede nel cuore piuttosto che nel cervello, consiste in disposizione d'animo più che in intelletto. Per questo l'obbedienza della fede è lodata (Ro 1.5) al punto che Dio preferisce quello ad ogni altro servizio, e a ragione, visto che nulla è prezioso quanto la sua verità, sottoscritta dai credenti, secondo Giovanni Battista, come quando si mette la propria firma o suggello su una lettera (Gv. 3.33). Questo non può dar luogo a dubbi, concludo; perciò, in una parola, coloro che affermano la fede essere formata quando vi si aggiunge qualche buon sentimento, come un accessorio estraneo, non fanno che blaterare, visto che l'assentire non può essere privo di buona disposizione d'animo e riverenza verso Dio.
Ma si presenta un argomento assai più chiaro. Poiché la fede accoglie Gesù Cristo come ci è offerto dal Padre (e non ci è offerto unicamente per giustizia, remissione dei peccati e riconciliazione ma altresì per santificazione e fonte d'acqua viva) nessuno potrà mai conoscerlo dovutamente né credere in lui senza afferrare questa santificazione data dallo Spirito. O, per esprimerci ancora più chiaramente: la fede ha la sua sede nella conoscenza di Cristo e Cristo non può essere conosciuto senza la santificazione ad opera del suo Spirito; ne consegue che la fede non deve assolutamente essere separata da una buona disposizione d animo.
9. Coloro che hanno l'abitudine di citare san Paolo quando dice che se qualcuno avesse una fede così perfetta da trasportare le montagne ma fosse privo di carità, costui non è nulla (1 Co. 13.2) , e vogliono con queste parole rendere la fede informe e priva di carità, non considerano affatto il significato del termine "fede, "in questo passo. San Paolo, intendendo parlare dei diversi doni dello Spirito, fra cui elencava le lingue, il potere di compiere miracoli e le profezie (1 Co. 12.10) , ed esortando i fratelli di Corinto a rivolgere la loro attenzione a quelli più eccellenti e utili, quelli cioè da cui poteva scaturire maggior frutto e utilità a tutto il corpo della Chiesa, aggiunge che mostrerà loro una via migliore: tutti quei doni, pur essendo eccellenti per natura, non sono per nulla da stimare se non servono alla carità; sono infatti dati per l'edificazione della Chiesa e se non vi si riferiscono, perdono il loro significato e il loro valore.
Per darne prova, egli si vale di una distinzione, attribuendo nomi diversi a quegli stessi doni di cui aveva fatto prima menzione. Così definisce "fede "quel che prima aveva chiamato "potere ", volendo indicare con l'uno e l'altro vocabolo la potenza di fare dei miracoli. Ora poiché questa potenza, sia essa fede o potere, è un dono particolare di Dio, come lo sono il dono delle lingue, di profezia e altri simili, che anche un malvagio può avere e di cui può abusare, non fa meraviglia che essa sia separata dalla carità.
Tutto l'errore di questa povera gente deriva dal fatto che, pur avendo il vocabolo "fede "diversi significati che essi non osservano, si trovano a combattere come se fosse sempre preso nello stesso senso. Il passo di san Giacomo che essi citano a conferma del loro errore sarà spiegato altrove (Gm. 2.14).
Benché, per comodità didattica, ammettiamo che vi siano varie forme di fede, volendo riferirci alla conoscenza di Dio fra i malvagi, tuttavia riconosciamo e confessiamo con la Scrittura che c'è un'unica fede nei figli di Dio.
È pur vero che molti credono esserci un Dio e pensano che tutto ciò che è contenuto nell'Evangelo e nella Scrittura sia vero, allo stesso modo che si è soliti giudicare vero quello che si legge nelle cronache o che si è visto con i propri occhi.
Altri vanno ancora oltre poiché considerano la parola di Dio oracolo indiscutibile, non disprezzano affatto i suoi comandamenti e sono in qualche modo colpiti dalle sue promesse. Diciamo che quella gente non è senza fede, ma lo diciamo in modo improprio per il solo fatto che essi non combattono con empietà manifesta la parola di Dio, non la respingono né la disprezzano, ma danno anzi qualche parvenza di obbedienza.
10. Quest'ombra o immagine della fede non rivestendo alcuna importanza, è indegna di un tal titolo. Benché stiamo per vedere più ampiamente quanto essa differisca dalla vera fede, nondimeno non nuocerà farne ora un breve cenno.
È detto che Simon Mago credette, mentre poco dopo egli manifesta la sua incredulità (At. 8.13). Quanto alla testimonianza di fede che gli è data, non intendiamo dire, con certuni, che egli l'abbia soltanto simulata a parole, senza averla in cuore; pensiamo piuttosto che, dominato dalla maestà
dell'Evangelo, egli vi abbia prestato una vera fede, riconoscendo a tal punto Cristo per autore di vita e di salvezza, da accettarlo in quanto tale. Il nostro Signore dice, all'ottavo capitolo di san Luca, che coloro nei quali il seme della Parola è soffocato prima di portar frutto, oppure è disseccato e perso prima di aver messo radice, credono per un certo tempo. Non mettiamo in dubbio che costoro siano presi da un qualche interesse per la Parola tant'è vero che, colpiti dalla sua potenza divina, la ricevono con piacere, fino a ingannare, nella loro fallace simulazione, non solo gli uomini, ma anche i propri cuori. Poiché essi si persuadono che il loro rispetto per la Parola di Dio è la pietà più autentica che possano avere, in quanto non reputano maggior empietà al mondo che il vituperare o disprezzare apertamente questa Parola. Ora, qualunque sia questo ricevere l'Evangelo, non penetra fino al cuore per rimanervi radicato; e benché talvolta paia mettervi radici, queste non sono viventi: a tal punto è vano il cuore umano, pieno di nascondigli per le menzogne, avvolto di ipocrisia, che inganna spesso se stesso. Quanto a coloro che si gloriano di una tal sembianza di fede, devono convincersi che non sono in questo per nulla superiori al diavolo (Gm. 2.19). Certo, i primi di cui abbiamo parlato sono di gran lunga inferiori, in quanto sono scossi udendo le cose che fanno tremare i diavoli; gli altri sono simili, in quanto il sentimento che ne hanno si muta In terrore e spavento.
2. So che l'attribuire la fede ai dannati sembra molto duro e strano a taluni, visto che san Paolo la considera il frutto della nostra elezione (1 Ts. 1.3-4). Ma sarà facile sciogliere questo enigma: sebbene Dio illumini nelle fede e faccia veramente sentire l'efficacia dell'Evangelo solo ai predestinati alla salvezza, l'esperienza insegna che i dannati sono talvolta toccati da un sentimento quasi simile a quello degli eletti, di modo che, in base alla loro opinione, essi non differiscono in nulla dai credenti. Così non c'è alcuna assurdità quando l'Apostolo dice che essi gustano per un tempo i doni celesti (Eb. 6.4) , e quando Gesù Cristo dice che essi hanno una fede temporanea. Non già che capiscano qual è la potenza dello Spirito, né che la ricevano coscientemente come vera luce di fede, ma perché Dio, al fine di renderli convinti e ancor più inescusabili, si introduce nei loro intelletti nella misura in cui la sua bontà può essere assaporata senza lo Spirito di adozione. Se qualcuno replica che i credenti non sapranno dunque come rassicurarsi e non potranno giudicare in che modo sono adottati da Dio, rispondo che sebbene vi sia una grande somiglianza e affinità fra gli eletti e quelli che hanno una fede caduca e transitoria, tuttavia la fiducia di cui parla san Paolo (Ga 4.6) , cioè l'osare invocare apertamente Dio come Padre, ha la sua efficacia soltanto per gli eletti. Come Dio rigenera continuamente per mezzo del seme incorruttibile soltanto gli eletti, e non permette mai che questo seme che ha piantato nei loro cuori perisca, così senza dubbio egli suggella nei loro cuori in un modo speciale la certezza della sua grazia affinché essa sia loro pienamente ratificata. Questo non impedisce che lo Spirito Santo operi, sia pure su un piano diverso, nei confronti dei reprobi. Tuttavia i credenti sono ammoniti ad esaminare se stessi con cura e umiltà, temendo che al posto della certezza di fede che devono avere non si insinui di soppiatto nel loro cuore una qualche presunzione carnale.
Un altro punto deve essere notato: i dannati non hanno il sentimento della grazia di Dio se non in maniera confusa, di modo che essi percepiscono piuttosto l'ombra anziché il corpo e la sostanza, poiché lo Spirito Santo non suggella veramente la remissione dei peccati se non agli eletti affinché siano fortificati da una certezza particolare. Ma si può dire che i dannati credono che Dio sia loro propizio poiché accettano il dono di riconciliazione, anche se in modo confuso e senza piena risoluzione. Non che siano partecipi con i figli di Dio di una medesima fede o rigenerazione, ma in quanto, sotto fallace apparenza, sembrano avere un principio di fede comune con loro. Io non nego che Dio illumini gli intelletti di costoro al punto da far loro conoscere la sua grazia, ma egli distingue questo sentimento dato loro dalla testimonianza che incide nel cuore dei suoi credenti cosicché permane sconosciuto a quelli il pieno compimento e la reale efficacia della fede di questi ultimi. In effetti Dio non si mostra propizio ai reprobi, come se li ritraesse dalla morte per prenderli sotto la sua protezione; la sua misericordia presente giunge loro come una folata. Agli eletti soltanto egli concede la grazia di radicare la fede viva nel loro cuore per farli perseverare in essa fino alla fine. Cade così l'obiezione che si potrebbe fare, che se Dio mostra loro la sua grazia, ciò dovrebbe essere irreversibile e permanente. Nulla impedisce a Dio di far brillare in alcuni, per un certo tempo, un sentimento della sua grazia, il quale in seguito svanisce.
12. Essendo la fede un conoscere la buona volontà di Dio verso di noi e un esser persuasi della sua verità, non fa meraviglia che nelle persone leggere ed incostanti venga meno la comprensione dell'amore di Dio. Infatti, per quanto essa sia prossima alla fede, ne differisce assai. La volontà di Dio è certo immutabile e la sua verità non soggetta a variazioni; ma affermo che i dannati non giungono mai a quella segreta rivelazione della loro salvezza che la Scrittura attribuisce solamente ai credenti. Nego dunque che essi comprendano la volontà di Dio nella sua immutabilità o che abbraccino solidamente la sua verità, poiché si limitano ad un sentimento soggetto a crisi, anzi destinato a svanire: come un albero che non è piantato abbastanza in profondità per mettere solide radici, anche se per qualche anno produce fiori, foglie e qualche frutto, tuttavia, Cl. tempo intristisce e muore.
Se l'immagine di Dio ha potuto essere cancellata dall'intelletto e dall'anima del primo uomo a motivo della sua ribellione, non fa meraviglia che Dio spanda qualche raggio della sua grazia sui ribelli, lasciandolo poi svanire. Parimenti, nulla impedisce che egli dia agli uni una qualche superficiale ed instabile conoscenza del suo Evangelo, destinata a venir meno, mentre in altri la imprime in modo tale che non svanisca.
Ci sia chiaro questo punto: la fede degli eletti, per quanto piccola o debole, essendo lo Spirito di Dio caparra e pegno infallibile di adozione, tale segno inciso nel loro cuore non potrà mai essere cancellato. Quanto al fatto che l'illuminazione conosciuta dai reprobi altro non sia che un'aspersione la quale si disperde e si riduce a zero, questo non significa che lo Spirito Santo inganni e frodi: il seme gettato nei loro cuori non è vivificato e reso incorruttibile come è il caso per gli eletti.
Procediamo oltre: l'esperienza e la Scrittura ci mostrano che i reprobi sono talvolta toccati dal sentimento della grazia di Dio; è dunque impossibile che non sorga nei loro cuori un qualche desiderio di rispondere al suo amore. Si spiega così che vi sia stato per un certo tempo in Saul una buona disposizione di dedicarsi a Dio: vedendosi trattato paternamente era allettato dalla dolcezza della sua bontà. Dato però che la valutazione che i reprobi hanno dell'amor paterno di Dio non è affatto radicata nel profondo del loro cuore, essi non corrispondono il suo affetto con pienezza di sentimenti come figli suoi ma sono spinti da un sentimento mercenario. È a Gesù Cristo soltanto che lo Spirito dell'amore di Dio è stato dato, ma a condizione che egli lo comunichi ai suoi membri. Infatti, l'affermazione di san Paolo si riferisce unicamente agli eletti: l'amore di Dio è sparso nei nostri cuori dallo Spirito Santo che ci è dato (Ro 5.5). Quell'amore solo genera la fiducia di invocare Dio.
All'opposto vediamo che Dio si adira in modo sorprendente verso i suoi figli, che tuttavia non cessa di amare: non li odia, ma vuole spaventarli Cl. sentimento della sua collera per umiliare in loro ogni orgoglio della carne, per scuotere ogni pigrizia e per sollecitarli al pentimento. Contemporaneamente perciò essi lo avvertono come sdegnato contro di loro e i loro peccati, ma non cessano di aver fiducia nel suo favore poiché il trovare rifugio in lui nasce da un sentimento schietto di serena fiducia: senza finzione alcuna, gli chiedono di volersi placare.
È dunque chiaro che molti, privi di una vera fede radicata in loro, ne hanno tuttavia qualche apparenza; non nel senso che si limitino a simularla davanti agli uomini, ma nel senso che essendo spinti da uno zelo improvviso, ingannano se stessi con una falsa opinione. Senza dubbio sono bloccati da ottusità, che impedisce loro di esaminare dovutamente il proprio cuore, come sarebbe richiesto. Verosimilmente erano tali coloro di cui parla san Giovanni, quando dice che Gesù Cristo non si fidava di loro, benché credessero in lui, perché li conosceva tutti e sapeva quel che c'è nell'uomo (Gv. 2.24).
Del resto, se parecchi non fossero decaduti dalla fede comune (mi servo della parola "comune "vista la grande somiglianza che corre fra la fede caduca e fragile e quella viva e permanente) , Gesù Cristo non avrebbe detto ai suoi discepoli: "Se perseverate nella mia Parola, voi sarete veramente i miei discepoli, e conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi " (Gv. 8.31-32). Egli si rivolge a coloro che già avevano ricevuto la sua dottrina, e li esorta a progredire nella fede affinché non spengano per noncuranza la luce che era loro data. San Paolo riserva agli eletti la fede, come un tesoro particolare (Tt 1.1) , volendo significare che coloro che se ne allontanano e vengono meno non vi si sono radicati in modo vitale. Così ne parla il nostro Signore Gesù in san Matteo: "Ogni albero che il Padre mio non ha piantato, sarà sradicato " (Mt. 15.13). Vi sono altri ipocriti più grossolani, che non si vergognano affatto di ingannare Dio e gli uomini. È contro tal genere di persone che san Giacomo inveisce tanto aspramente (Gm. 2.14-26) , perché sotto una falsa apparenza profanano malignamente la fede. Anche san Paolo richiedeva dai figli di Dio una fede non finta, visto che parecchi si vantano con eccessivo coraggio di avere ciò che non hanno e non so con quale trucco o vana finzione ingannano la gente, e talvolta loro stessi. Perciò egli paragona la buona coscienza ad uno scrigno in cui la fede e conservata, dicendo che essa è perita in molti, perché non era munita di questa protezione (1 Ti. 1.5, e 19).
13. Dobbiamo anche notare i diversi significati del termine "fede ". Poiché, spesso, dire fede equivale a parlare di sana e pura dottrina in materia di religione, come nel passo testé citato, e quando san Paolo comanda che i diaconi siano istruiti nei misteri della fede con pura coscienza (1 Ti. 3.9) , e quando lamenta che alcuni si sono ribellati alla fede. All'opposto, quando dice che Timoteo è stato nutrito nella dottrina della fede (1 Ti. 4.1-6) , o quando ricorda che la presunzione profana di ciarlare e le opposizioni di una sedicente scienza sono la causa della ribellione di molti alla fede, gente che egli chiama, in un altro passo, "reprobi riguardo alla fede " (2Ti 2.16; 3.8). Di nuovo, quando ordina a Tito di ammonire coloro di cui si occupa, affinché siano "sani nella fede " (Tt 1.14; 2.2) , significando con le parole "essere sano "una purezza e semplicità dottrinale suscettibile di corrompersi facilmente a causa della leggerezza degli uomini, e di imbastardirsi. Di fatto, poiché tutti i tesori della conoscenza e della sapienza sono nascosti in Gesù Cristo (Cl. 2.3) , posseduto dalla fede, non senza motivo questo termine si applica a tutta la sostanza della dottrina celeste, da cui la fede non può essere separata.
D'altra parte, il termine "fede "si limita in alcuni passi ad un oggetto particolare, come quando san Matteo dice che Gesù Cristo ha visto la fede di coloro che calavano il paralitico giù dal tetto (Mt. 9.2); o quando Gesù Cristo dice che non ha trovato in Israele una fede come quella del centurione (Mt. 8.10). Certamente costui era lietissimo della guarigione del suo servo, per il quale dimostra, con i suoi propositi, quanta cura avesse. Ma dato che si era accontentato della sola risposta di Gesù Cristo, non chiedendo la sua presenza corporea ma affermando che gli era sufficiente che egli dicesse quella parola, la sua fede è lodata.
Abbiamo anche avvertito che san Paolo definisce fede il dono di fare dei miracoli (1 Co. 13.2) , dono che talvolta è comunicato a coloro che non sono rigenerati dallo Spirito di Dio e che non lo temono con sincerità e rettitudine.
A volte si serve di questo stesso termine per indicare l'istruzione che riceviamo onde essere edificati nella fede. Poiché è fuor di dubbio, quando scrive che la fede sarà abolita, che questo si riferisce al ministero della chiesa e alla predicazione che sovviene oggi alla nostra debolezza. C'è in tutti questi modi di dire una convergenza evidente.
Del resto, quando il termine fede si trasferisce impropriamente ad una falsa professione, o ad un titolo preso a prestito, o ad un travestimento, ciò non deve essere considerato né più improprio né più disdicevole di quando il timor di Dio è scambiato per un servizio confuso e peccaminoso che gli si rende. È detto nella storia sacra che i popoli trasferiti in Samaria e nella regione limitrofa temettero gli dei falsamente inventati e il Dio d'Israele: è come mescolare il cielo e la terra.
Ma noi chiediamo ora che cos'è la fede che distingue i figli di Dio dagli increduli, fede per la quale noi invochiamo Dio come nostro padre, fede che ci fa passare dalla morte alla vita e per la quale il Signor Gesù, nostra salvezza eterna e nostra vita, abita in noi. Mi pare di aver spiegato in breve e con chiarezza la sua caratteristica e la sua natura.
14. Ci rimangono ora da riesaminare le singole parti della definizione data. Quando noi definiamo la fede "conoscenza ", non intendiamo una comprensione del tipo di quella che gli uomini hanno per le cose sottomesse ai loro sensi poiché essa supera a tal punto ogni senso umano, che il nostro spirito dovrebbe sorpassare se stesso per raggiungerla. Ed anche quando ci arriva, non afferra ciò che intende; ma ritenendo per certo ed acquisito ciò che non è in grado di comprendere, intende più in base alla certezza di questa persuasione che se intendesse qualcosa di umano, secondo la sua capacità. Molto bene si esprime san Paolo quando dice che bisogna comprendere la lunghezza, la larghezza, la profondità e l'altezza dell'amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza (Ef. 3.18-19). Poiché ha voluto significare contemporaneamente l'una e l'altra cosa: quel che il nostro intelletto afferra di Dio, per mezzo della fede, è assolutamente infinito, e questo modo di conoscere oltrepassa l'intelligenza. Ma avendo il nostro Signore manifestato ai suoi servitori il segreto della sua volontà, nascosto per tutti i secoli e le generazioni, la fede è giustamente chiamata "conoscenza " (Cl. 1.26).
Anche san Giovanni la chiama "scienza "quando dice che i credenti hanno coscienza di essere figli di Dio (1 Gv. 3.2). Infatti lo sanno con certezza, ma perché confermati nella persuasione della verità di Dio più che resi dotti per dimostrazione o argomentazione umana. Uguale significato hanno le parole di san Paolo: ". mentre abitiamo in questo corpo, siamo come pellegrini lontani da Dio, poiché camminiamo per fede e non per visione " (2 Co. 5.6-7). Con cui dimostra che le cose che intendiamo per fede sono assenti e nascoste alla nostra vista. Ne concludiamo che l'intelligenza della fede consiste più in certezza che in comprensione.
15. Per ricordare che si tratta di una salda costanza, aggiungiamo che questa conoscenza è certa e sicura. Come la fede non si riduce ad essere opinione incerta e mutevole, COSÌ essa non si limita ad una riflessione oscura e dubbiosa, ma richiede una certezza piena e stabile, quale si suole avere per le cose chiaramente provate e comprese. L'incredulità è tenacemente radicata e insita nel cuore umano e siamo fortemente inclini ad essa: dopo aver confessato che Dio è fedele, nessuno può infatti esserne ben persuaso senza impegnarsi in una lotta grande e difficile. Segnatamente quando le tentazioni incalzano, i dubbi e le prove mettono a nudo il peccato nascosto.
Non senza motivo lo Spirito Santo, per magnificare l'autorità della Parola di Dio, le attribuisce titoli di eccellenza: si tratta di porre rimedio alla malattia di cui parlo e condurci a credere pienamente le promesse di Dio. Perciò Davide dice che le parole di Dio sono parole pure, argento sette volte ben rifuso in un eccellente crogiolo (Sl. 12.17). E: "La parola di Dio è purgata Cl. fuoco, ed è scudo per coloro che confidano in essa " (Sl. 18.31). Salomone, confermando lo stesso concetto, quasi negli stessi termini dice: "La parola di Dio è come argento bene affinato " (Pr 30.5). Il salmo 119è quasi interamente dedicato a questo argomento; sarebbe dunque superfluo dilungarci.
Del resto, ogniqualvolta Dio loda in questo modo la sua parola, redarguisce indirettamente la nostra incredulità, poiché non mira ad altro che a togliere e a strappare dai nostri cuori tutte le diffidenze, i dubbi e le dispute perverse.
Parecchi concepiscono la misericordia di Dio in modo tale da riceverne ben poca consolazione. Sono stretti da miserevole angoscia, in quanto dubitano che egli sarà loro misericordioso dato che, pur pensando di ben conoscerla, limitano eccessivamente la sua clemenza. Ecco come la concepiscono: pur ritenendola ampia, diffusa su molti, preparata per tutti, non hanno la certezza che giungerà fino a loro, o piuttosto che potranno giungere ad essa. Questo sentimento, nella misura in cui rimane a metà strada, è incompleto: più che rassicurare lo spirito in tranquillità e certezza, lo inquieta Cl. dubbio e l'irresolutezza.
Ben altro è il sentimento di certezza, che la Scrittura sempre congiunge alla fede, della bontà di Dio che ci è proposta. i;: impossibile che ci raggiunga senza che ne sentiamo veramente la dolcezza, e la sperimentiamo in noi stessi. L'Apostolo deduce infatti la fiducia dalla fede, e dalla fiducia l'ardire, dicendo che in Cristo abbiamo l'ardire di accostarci a Dio in piena fiducia, per mezzo della fede in Gesù Cristo (Ef. 3.12). Con queste parole egli sottolinea che non v'è retta fede nell'uomo se non quando osa presentarsi davanti a Dio con franchezza e con cuore rassicurato: questo ardire non può sussistere se non esiste sicura fiducia nella benevolenza e nella salvezza offerta da Dio. A tal punto questo è vero, che il nome di fede ha spesso il significato di fiducia.
16. In questo consiste il nucleo centrale della fede: non pensare che le promesse di misericordia, offerteci dal Signore, siano efficaci solamente fuori di noi e non in noi, ma piuttosto farle nostre ricevendole nel nostro cuore. Da una tale accettazione deriva la fiducia che san Paolo chiama altrove "pace " (Ro 5.1); a meno che qualcuno preferisca far derivare questa pace dalla fiducia, come una sua conseguenza.
Questa pace è una sicurezza che dà riposo e gioia alla coscienza in presenza del giudizio di Dio, poiché senza di essa la coscienza è inesorabilmente sconvolta in maniera preoccupante e quasi lacerata, a meno che, dimenticando Dio e se stessa, non si addormenti per un certo tempo. Per un certo tempo, dico; essa non gode a lungo di questo miserevole oblio, ma subito è punta al vivo dal giudizio di Dio il cui pensiero cammina innanzi a lei d'ora in ora.
Non c'è vero credente all'infuori di colui che, fermamente convinto che Dio è per lui un padre propizio e benevolo, aspetta ogni cosa dalla sua bontà; di colui che, fondandosi sulle promesse del buon volere di Dio, attende senza dubitare la sua salvezza, come dimostra l'Apostolo con le parole: "Se teniam ferma fino alla fine la fiducia e la glorificazione della nostra speranza " (Eb. 3.14). Dicendo questo, egli dichiara che non spera veramente in Dio chi non osa coraggiosamente glorificarsi di essere erede del Regno dei cieli. Non vi è, ripeto, credente autentico all'infuori di colui che, certo della sua salvezza, osa sfidare senza esitazione il Diavolo e la morte, come insegna l'Apostolo nella sua conclusione ai Romani: "Io sono certo, dice, che né morte, né vita, né angeli, né principati, né potenze, né cose presenti, ne cose future potranno separarci dall'amore che Dio ha per noi in Gesù Cristo " (Ro 8.38).
Così l'Apostolo ritiene che gli occhi del nostro intelletto sono ben illuminati solo se contempliamo la speranza dell'eredità eterna a cui siamo stati chiamati (Ef. 1.18). Questo è il suo costante insegnamento: non comprendiamo bene la bontà di Dio se non abbiamo in essa piena fiducia.
17. Qualcuno obietterà che ben diversa è l'esperienza dei credenti visto che, nel riconoscere la grazia di Dio verso di loro, non solo sono tormentati e agitati da dubbi (il che accade loro normalmente) ma talvolta, anche, grandemente perplessi e spaventati. Tanto veemente è la pressione delle tentazioni che li assalgono per scuoterli! Questo non sembra conciliarsi affatto con la certezza di fede di cui abbiamo parlato. Bisogna dunque che risolviamo questa difficoltà, se vogliamo che permanga valido l'insegnamento dato più sopra.
Quando noi insegniamo che la fede deve essere certa e sicura, non immaginiamo affatto una certezza che non sia intaccata da dubbio, né una sicurezza esente da interrogativi; diciamo anzi che i credenti devono condurre una lotta continua contro la loro stessa diffidenza e non releghiamo certo la loro coscienza in un tranquillo riposo al riparo da ogni tempesta. Tuttavia, qualunque sia il modo in cui sono assaliti, affermiamo che non scadono mai dalla fiducia nella misericordia di Dio che hanno una volta ritenuta certa.
La Scrittura non propone esempio di fede più notevole e singolare della persona di Davide, soprattutto se si considera l'intero corso della sua vita; ma egli stesso si duole di non essere stato sempre tranquillo nel suo spirito e di non aver trovato riposo nella fede. Il rimprovero che egli rivolge alla sua anima di turbarsi oltre misura, a che cosa mira se non ad esprimere il suo cruccio per la sua incredulità? "Anima mia "dice "perché ti spaventi? perché ti rivolti in me? Spera in Dio " (Sl. 42.6). Un tale spavento era un segno manifesto di sfiducia, come se avesse pensato di essere abbandonato da Dio. Altrove fa una confessione ancora più ampia: "Ho detto nel mio turbamento: Sono respinto dallo sguardo dei tuoi occhi " (Sl. 31.23). In un altro passo si dibatte in se stesso con tanta perplessità e angoscia, da entrare perfino in discussione sulla natura di Dio: "Ha egli dimenticato "dice "di far misericordia? Respingerà egli sempre? " (Sl. 77.10). Aggiunge una affermazione ancora più dura: "Ho detto: "Devo morire ". Ecco venire un cambiamento dalla mano di Dio ". Come un uomo disperato, si dichiara perso. Non solo confessa di essere agitato da dubbi, ma, oppresso e vinto, non serba alcuna speranza poiché Dio l'ha abbandonato ed ha volto contro di lui, per rovinarlo, la mano con cui aveva l'abitudine di soccorrerlo. A ragione esorta dunque la sua anima a tornare al suo riposo (Sl. 116.7) , poiché aveva sperimentato che essa errava qua e là fra i flutti della tentazione.
Ammirevole è tuttavia il fatto che la fede sostenga il cuore dei credenti in mezzo a scosse così numerose e implacabili. È: veramente come il ramo flessibile che resiste, carico, a tutti i pesi e pur sempre si risolleva. Davide in apparenza oppresso, non ha smesso di rIs.lire a Dio, rimproverandosi la propria debolezza. È già in gran parte vittorioso colui che, lottando contro la sua debolezza, si sforza nelle sue sventure di persistere nella fede e di progredirvi. l: quanto possiamo constatare nell'altro passo di Davide: "Aspetta il Signore; fortificati, egli ti darà coraggio. Aspetta dunque il Signore " (Sl. 27.14). Egli si accusa per due volte di timidezza e confessa di esser stato soggetto a molti turbamenti. Non solo si dispiace dei suoi peccati, ma si impegna a correggerli.
Se, volendo fare un utile raffronto, lo si paragona al re Achaz, si riscontrerà una notevole differenza. Isaia è mandato a quell'ipocrita per porre rimedio alla paura che lo aveva colto. Gli reca questo messaggio: "Sta' in guardia e calmo. Non temere " (Is. 7.4). Allora quel miserabile, già colto da spavento (poco prima era stato detto che era agitato "come una foglia d'albero ", pur avendo ricevuto la promessa, non smette di tremare. È dunque giusto appannaggio e punizione dell'incredulità, questo ribellarsi; chi, nella tentazione, non cerca di aprirsi alla fede per venire a Dio, se ne allontana e se ne distoglie. Al contrario i credenti, benché piegati sotto il peso, anzi quasi sprofondati nell'abisso, attingono coraggio e costanza per riprendersi, anche se questo avviene con grande difficoltà e tribolazione. Convinti della loro debolezza, pregano Cl. Profeta: "Signore, non togliermi per sempre la parola di verità dalla bocca " (Sl. 119.43). Questo significa che i credenti diventano talvolta muti, come se la loro fede fosse abbattuta; tuttavia non vengono meno e non si ritirano come gente sconfitta, ma proseguono il combattimento e scuotono la loro pigrizia, se non altro per non cadere, adulandosi, in uno stato di insensibilità.
18. Per intendere meglio questo fatto è necessario ricorrere alla distinzione fra "spirito "e "carne "distinzione di cui abbiamo parlato altrove, e che si evidenzia chiaramente a questo proposito. Il cuore del credente avverte dunque in se stesso questa tensione: da un lato è ripieno di gioia per la conoscenza che ha della bontà di Dio, dall'altro amareggiato dal sentimento della sua disgrazia; si riposa sulla promessa dell'Evangelo, ma trema per la coscienza della sua iniquità; afferra la vita con gioia, ma ha orrore della morte. Questo contrasto deriva dall'imperfezione della fede, poiché nel corso della vita presente non raggiungiamo mai la felicità di una pienezza di fede e di una liberazione da ogni sfiducia. Da qui la lotta, quando la sfiducia che permane nella carne si erge per attaccare e rovesciare la fede.
A questo punto mi si dirà: se nel cuore del credente il dubbio è misto a certezza, non torniamo forse sempre al fatto che la fede non ha una conoscenza chiara e certa della volontà di Dio, ma oscura e dubbia? Rispondo di no. Per quanto possiamo essere distratti da altri pensieri, non ne consegue che siamo separati dalla fede. L'essere talvolta agitati dagli assalti dell'incredulità, non significa essere gettati nell'abisso di tale incredulità.
Siamo scossi, non per questo inciampiamo; l'esito di questa battaglia è che la fede trionfa sempre di queste difficoltà, pur sembrando in pericolo sotto la loro minaccia.
19. Insomma, non appena la più piccola goccia di fede che si possa immaginare ha sede nella nostra anima, incominciamo a contemplare il volto di Dio misericordioso e propizio verso di noi. Da lontano, è vero, ma con sguardo così sicuro da essere certi che non sussiste inganno. Poi, nella misura in cui progrediamo (poiché conviene che si facciano progressi con assiduità) ci accostiamo per vedere con maggior certezza. Inoltre, il perseverare nella fede fa sì che la conoscenza divenga più sicura.
Vediamo così che la mente, illuminata dalla conoscenza di Dio, è ottenebrata, all'inizio, da molta ignoranza, che a poco a poco viene eliminata. Ma a dispetto della sua ignoranza e dell'aver visto m modo più oscuro, non c'è impedimento a che goda di una conoscenza evidente della volontà di Dio. Questo, nella fede, è il primo punto e il principale: non diversamente da chi, rinchiuso in un carcere profondo, non riceve la luce del sole se non obliquamente e a metà, da una finestra alta e stretta; egli non vede il sole in modo completo e libero, ma non cessa di ricevere la luce e di farne uso.
Benché vediamo da ogni parte molta oscurità, rinchiusi nella prigione di questo corpo terrestre, se abbiamo una sia pur minima rivelazione della misericordia di Dio, essa ci illumina sufficientemente per darci una sicura certezza.
20. L'una e l'altra cosa ci sono dimostrate con chiarezza dall'Apostolo in molti passi. Dicendo che conosciamo in parte, profetizziamo in parte, e vediamo in modo oscuro come in uno specchio (1 Co. 13.9) , egli sottolinea quanto piccola sia la parte di saggezza divina distribuitaci nella vita presente. Queste parole non significano soltanto che la fede è imperfetta mentre gemiamo sotto il fardello della nostra carne, ma ci avvertono che a causa della nostra imperfezione abbiamo bisogno di essere continuamente esercitati nell'insegnamento; ci insegnano inoltre che non possiamo capire nella nostra piccolezza le cose infinite. L'affermazione di san Paolo si riferisce a tutta la Chiesa, poiché non c'è nessuno fra noi esente dal sentire che la sua ignoranza rappresenta un grave ostacolo e un freno per un avanzamento quale sarebbe a desiderare. Ma egli stesso dimostra in un altro passo quanto grande sia la certezza contenuta nella minima goccia di fede che abbiamo, quando afferma che per mezzo dell'Evangelo contempliamo a viso scoperto la gloria di Dio, senza alcun impedimento, per essere trasformati nella di lui immagine (2 Co. 3.18). È inevitabile che in una tale condizione di ignoranza ci siano molti scrupoli e paure, visto che il nostro cuore, per sua natura è incline all'incredulità.
Tentazioni sopraggiungono in numero infinito, e di diversi tipi, che ci assalgono costantemente in modi incredibili. La coscienza, anzitutto, oppressa dal carico dei suoi peccati, che ora si lamenta e geme in se stessa, ora si accusa, talvolta tacitamente inquieta, talvolta apertamente tormentata. Sia dunque che le avversità riflettano in qualche modo la collera di Dio, o che la coscienza ne ravvisi la causa in se stessa, l'incredulità ne approfitta per combattere la fede, impiegando tutte le sue armi allo scopo di farci credere che Dio ci è contrario e adirato, onde non speriamo alcun bene da lui e ne abbiamo paura come di un nostro nemico mortale.
21. Per far fronte a questi assalti, la fede è protetta dalla Parola di Dio. Quando è assalita dalla tentazione di ritenere che Dio sia contrario e nemico affliggendoci, si difende opponendo la certezza che è misericordioso anche quando affligge; i castighi che dà, derivano da amore piuttosto che da collera. Colpita dal pensiero che Dio è giusto giudice per punire ogni iniquità, si fa scudo del fatto che il perdono è preparato per tutti i peccati, quando il peccatore si rivolge alla clemenza del Signore.
In questo modo l'anima credente, benché profondamente tormentata, finisce tuttavia per sormontare tutte le difficoltà e non permette che la fiducia posta nella misericordia di Dio le sia mai tolta e strappata; anzi, tutti i dubbi da cui è provata conducono a rafforzare maggiormente questa fiducia.
Ne abbiamo la prova nel fatto che i santi, quando vedono incalzare la vendetta di Dio, non cessano di rivolgergli i loro lamenti e lo invocano anche se sembra che non debbano essere esauditi. Perché infatti si lamenterebbero con colui dal quale non aspettano alcun sollievo? Come sarebbero indotti ad invocarlo, se non hanno alcuna speranza nel suo aiuto? Parimenti i discepoli, rimproverati da Gesù Cristo per la debolezza della loro fede, imploravano il suo aiuto malgrado fossero in pericolo di morte (Mt. 8.25). Redarguendoli per la debolezza della loro fede, non li esclude dal numero dei suoi per metterli con gli increduli, ma li incita a rifuggire un tal peccato.
Riaffermiamo dunque quanto detto in precedenza: la radice della fede non è mai interamente strappata dal cuore credente, ma vi dimora sempre radicata anche se, quando è scossa, pare inclinarsi qua e là; la luce della fede non è mai spenta o soffocata al punto che non ne rimanga almeno qualche scintilla; da ciò si può giudicare che la Parola, seme incorruttibile di vita, produce un frutto simile a se stessa, il cui germe non secca e non perisce. È: quanto dimostra Giobbe, quando dice che non cesserà di sperare in Dio, quand'anche egli lo facesse morire (Gb. 13.15). Il maggior motivo di disperazione per i santi è infatti la percezione della mano di Dio alzata, per quanto si possa dedurre dalle circostanze, per umiliarli.
L'incredulità non regna nel cuore dei credenti, ma li assilla dall'esterno, non li ferisce mortalmente, ma si limita a molestarli, oppure li ferisce ma di una ferita che si può curare. Infatti san Paolo dice che la fede è per noi uno scudo (Ef. 6.16). Essa dunque, posta innanzi per resistere al Diavolo, riceve i colpi ma li respinge, o per lo meno li attutisce in maniera che non penetrino fino al cuore. Quando dunque la fede è scossa avviene come se un soldato, pur molto robusto, fosse costretto da un colpo impetuoso a indietreggiare e a ritirarsi. Quando è ferita, e come se il di lui scudo ricevesse qualche incrinatura dalla violenza di un colpo, ma solo fino ad essere piegato, non forato; l'anima credente avrà sempre il sopravvento per dire con Davide: "Se cammino nell'ombra della morte non temerò male alcuno in quanto tu sei con me, Signore " (Sl. 23.4). È certo spaventoso camminare nell'oscurità della morte, né si può impedire che i credenti, per quanta fermezza sia in loro, abbiano in grande orrore un tal frangente; ma poiché trionfa nel loro spirito il pensiero che Dio, con la sua presenza, ha cura della loro salvezza, il timore è vinto da questa certezza. Per quanto il Diavolo macchini contro di noi e tenti di assalirci, dice sant'Agostino, finché non occupa il luogo del cuore in cui abita la fede, è cacciato fuori.
Se si giudica in base all'esperienza i credenti non solo sfuggono vittoriosi ad ogni assalto e, ripreso coraggio, sono pronti a ricominciare la lotta meglio di prima, ma si compie in loro quel che dice san Giovanni nella sua epistola canonica: "La vostra fede è la vittoria che ha vinto il mondo " (1 Gv. 5.4). Intende dire che non solo essa sarà vittoriosa in una o in dieci battaglie, ma che trionferà ogni volta che sarà assalita.
22. C'è un altro genere di timore e tremore da cui la certezza della fede, lungi dall'essere diminuita, è invece confermata: i credenti, sapendo che gli esempi della vendetta di Dio sugli iniqui devono essere loro di insegnamento onde non provochino l'ira di Dio con gli stessi sbagli, stanno maggiormente attenti per non compiere il male; o ancora, riconoscendo la loro miseria, imparano a dipendere da Dio in modo assoluto, sentendosi più effimeri e instabili di un soffio di vento, senza di lui.
Quando l'Apostolo, dopo aver descritto i castighi che Dio aveva inflitto al popolo d'Israele, mette in guardia i Corinzi affinché non cadano nello stesso peccato, non abbatte con ciò la loro fiducia ma semplicemente li sveglia dalla loro pigrizia che solitamente seppellisce la fede, anziché confermarla (1 Co. 10.5). O quando prende occasione dalla rovina degli Ebrei per esortare colui che sta in piedi perché si guardi dal cadere (Ro 11.20) , non ci ordina affatto di vacillare, come se fossimo instabili nella nostra fermezza, ma toglie semplicemente ogni arroganza e fiducia temeraria alle nostre capacità affinché noi, Gentili, non disprezziamo i Giudei ai quali siamo stati sostituiti; sebbene in quel testo non parli soltanto ai credenti, ma si rivolga parimenti agli ipocriti che si gloriano dell'apparenza esteriore. Non ammonisce ciascuno in particolare, ma avendo stabilito un paragone fra Giudei e Gentili e avendo dimostrato che la reiezione dei Giudei era una giusta punizione per la loro infedeltà e la loro ingratitudine, esorta parimenti i Gentili a non inorgoglirsi, a non innalzarsi, per paura di perdere l'adozione gratuita che avevano appena ricevuto. Come dopo la reiezione generale dei Giudei ne rimanevano tuttavia alcuni che non erano affatto scaduti dal patto di Dio, così potevano esserci fra i Gentili taluni che, privi di vera fede, si erano gonfiati di un vano orgoglio della carne abusando così, a loro rovina, della bontà di Dio.
Ancorché le parole di san Paolo siano intese come rivolte ai credenti, non c'è contraddizione riguardo a quel che abbiamo detto. Altro è riprovare la temerarietà da cui i santi sono talvolta sollecitati secondo la carne, per mostrare loro che non devono rallegrarsi di una folle presunzione, e altro è spaventare la coscienza al punto che non trovi più riposo e piena sicurezza nella misericordia di Dio.
23. Quando ci insegna ad impegnarci per la nostra salvezza con timore e tremore (Fl. 2.12) , chiede solo che prendiamo l'abitudine di affidarci alla potenza del Signore, con gran disprezzo di noi stessi. Nulla può spingerci a riporre in Dio la garanzia e la fiducia della nostra fede quanto la sfiducia in noi stessi e lo smarrimento che proviamo dopo aver riconosciuto la nostra sventura.
È in questo senso che bisogna intendere quanto è detto dal Profeta: "Entrerò nel tuo tempio, per la grandezza della tua benignità, e quivi adorerò con timore " (Sl. 5.8) , passo in cui, molto a proposito, unisce l'ardire della fede fondata sulla misericordia di Dio al timore e santo tremore da cui è necessario che siamo toccati quando, comparendo dinanzi alla maestà di Dio, noi comprendiamo alla sua luce quali siano le nostre sozzure. A ragione, dunque, Salomone definisce felice l'uomo che mantiene del continuo il suo cuore nel timore (Pr 28.14) , in quanto l'indurimento fa cadere in rovina. Egli intende però un timore che ci renda più attenti e saggi, non che ci affligga fino alla disperazione. Il nostro cuore, confuso, trova conforto in Dio, abbattuto, riprende coraggio in lui, diffidente di se stesso, si fortifica nella speranza che ha in lui.
Di conseguenza non c'è contrasto nel fatto che i credenti provino timore e tremore, e godano nel contempo della consolazione che li rende sicuri, in quanto da un lato considerano la loro vanità, e dall'altro la verità di Dio.
Qualcuno si domanderà come paura e fede possono coabitare in una stessa anima. Rispondo: esattamente come, all'opposto, inquietudine e indifferenza sono spesso congiunte. Per quanto i malvagi Si rendano il più possibile insensibili per non essere sollecitati da alcun timor di Dio, tuttavia il giudizio di Dio li perseguita, di modo che non possono raggiungere quel che desiderano. Non c'è dunque alcun inconveniente a che Dio educhi i suoi all'umiltà spronandoli con molti timori affinché, pur lottando valorosamente, siano mantenuti nella modestia come da una briglia.
Che tale sia stata l'intenzione dell'Apostolo, appare anche dal senso del testo. Egli stabilisce la causa di tale timore e tremore: Dio ci dà, per sua pura grazia, il volere e l'operare (Fl. 2.13). A questo si riferisce il dire del Profeta, secondo cui i figli di Israele temeranno a motivo di Dio e della sua bontà (Ho 3.5).
Non solo la pietà genera timor di Dio, ma la dolcezza della sua grazia, per quanto soave, insegna agli uomini a temere affinché imparino a sottoporsi interamente a Dio, abbassandosi sotto il suo potere.
24. Non intendo con questo approvare l'assurda fantasticheria di certi semipapisti odierni. Non potendo mantenere l'errore grossolano che ha avuto corso precedentemente nelle scuole di teologia, che, cioè, la fede è soltanto un'opinione dubbiosa, si servono di un altro sotterfugio parlando di una fiducia mista a incredulità. Essi confessano che guardando a Cristo, troviamo certo in lui piena ragione di sperare, ma poiché siamo sempre indegni dei beni che ci sono offerti in Gesù Cristo, pretendono che vacilliamo ed esitiamo, a motivo della nostra indegnità. Collocano insomma la coscienza fra la speranza e il timore al punto che essa Si piega ora verso l'una, ora verso l'altro. Inoltre, congiungono il timore e la speranza, cosicché il primo, quando è più forte, spenga la seconda e che a sua volta la seconda faccia altrettanto. Così Satana, vedendo che con la menzogna esplicita non può distruggere la certezza della fede, si sforza di nascosto e in modo quasi subdolo di farla cadere in rovina.
Ora, vi chiedo che fiducia sarà mai quella che ad ogni colpo è abbattuta dalla disperazione? Essi immaginano che guardando Cristo siamo certi della nostra salvezza; poi, volgendoci a noi, siamo certi della nostra condanna. Ne deduciamo che la fiducia e la disperazione devono volta a volta regnare nei nostri cuori, quasi dovessimo immaginare Cristo lontano da noi, e non piuttosto dimorante in noi! Ma se speriamo salvezza da lui, non è perché ci appare da lontano ma perché, avendoci uniti al suo corpo, ci rende partecipi non solo di tutti i suoi beni, ma anche di se stesso.
Di conseguenza, muovendo dalla loro premessa, dedurrò un'argomentazione esattamente opposta: considerando quello che siamo, vediamo chiaramente la nostra condanna, ma in quanto siamo partecipi di Gesù Cristo e di tutti i suoi beni, tutto quel che ha, diventa nostro e noi diventiamo sue membra ed una stessa realtà spirituale con lui; la sua giustizia seppellisce i nostri peccati, la salvezza che egli tiene in mano abolisce la nostra condanna, egli stesso si mette dinanzi a noi con la sua dignità per far sì che la nostra indegnità non appaia davanti a Dio. In realtà non dobbiamo affatto scindere Gesù Cristo e noi, ma dobbiamo mantenere saldo il legame con cui ci ha uniti a se; lo insegna l'Apostolo quando dice che il nostro corpo è morto a causa del peccato, ma lo Spirito di Gesù Cristo, che abita in noi, è vita a causa della sua giustizia (Ro 8.10). Per accondiscendere alle fantasticherie di quella gente avrebbe dovuto dire: Gesù Cristo ha, sì, la vita in se, ma noi peccatori dimoriamo nelle pastoie della condanna e della morte. Egli si esprime in ben altro modo, insegnando che la condanna che di per noi stessi meriteremmo è annullata dalla salvezza che è in Cristo. La prova consiste, a suo avviso, nel fatto che Gesù Cristo abita in noi, e non fuori di noi: non solo è legato a noi da un legame indissolubile, ma per mezzo di una unione ammirevole e che sorpassa il nostro intendimento si unisce quotidianamente e sempre più a noi, fino a diventare uno con noi.
Non contesto (e l'ho detto poco fa) che talvolta la nostra fede sia discontinua, poiché la nostra debolezza si piega qua e là, sotto gli attacchi che Satana le muove. Pertanto la luce della fede è soffocata dalle tenebre della tentazione, quando queste sono troppo spesse ed oscure, tuttavia essa non cessa di volgersi sempre a Dio.
25. San Bernardo, trattando deliberatamente la questione nella quinta omelia Intorno alla dedicazione del tempio, concorda Cl. nostro dire: "Talvolta "dice "pensando all'anima, mi pare di trovare in essa due realtà contrarie. Esaminandola qual essa è in se e per se, dovrei dire che è ridotta a nulla. Che bisogno c'è allora di elencare tutte le sue miserie? È carica di peccati, circondata di tenebre, avvolta da allettamenti, ribollente in concupiscenze, soggetta a passioni, piena di illusioni, sempre incline al male, tesa ad ogni peccato, in una parola, piena di ignominia e confusione! Se anche tutte le giustizie umane al cospetto di Dio sono simili a sozzura e spazzatura, che sarà allora delle ingiustizie? (Is. 64.6). Se non vi sono che tenebre nella luce, che sarà delle tenebre stesse? (Mt. 6.23). Che cosa ci rimane da dire? Certo l'uomo non è che vanità, l'uomo è ridotto a nulla, l'uomo non è nulla. Come può essere nulla, se Dio lo magnifica? Come può esser nulla, se Dio ne possiede il cuore? Facciamoci coraggio, fratelli; benché non siamo nulla da per noi stessi, troveremo qualcosa di noi, nascosto nel cuore di Dio. O Padre di misericordia, o Padre dei miserabili, com'è che rivolgi a noi il tuo cuore? Poiché il tuo tesoro è là dov'è il tuo cuore. Orbene, come possiamo essere il tuo tesoro non essendo nulla? Tutte le genti sono dinanzi a te come se non fossero nulla, e sono considerate nulla; davanti a te, certo, ma non in te. Giudicate dalla tua verità non sono nulla, ma sussistono nella tua pietà e bontà; poiché tu chiami le cose che non sono come se fossero. Benché le cose che tu chiami non siano nulla, esse tuttavia esistono per il fatto che tu le chiami; sebbene non siano nulla in se, tuttavia sono in te, secondo il pensiero di san Paolo: Non secondo le opere di giustizia, ma secondo Dio che chiama (Ro 9.12)".
Dopo aver parlato in questi termini, san Bernardo unisce nella maniera seguente queste due considerazioni: certo, le cose legate insieme non si distruggono l'un l'altra. Poi fa una dichiarazione ancora più semplice, concludendo: "Se in base a queste due considerazioni noi guardiamo diligentemente quel che siamo, o meglio in una vediamo che non siamo nulla, nell'altra quanto siamo magnificati, la nostra gloria sarà ben fortificata e aumentata. Ad ogni modo sarà incontestata, ma al fine di farci glorificare in Dio, e non in noi stessi. Se pensiamo che saremo liberati perché Dio vuole salvarci, noi avremo già sollievo. Ma bisogna salire più in alto e cercare la città di Dio, cercare il suo tempio, la sua casa, il segreto del suo matrimonio con noi. Così facendo, non dimenticheremo l'uno a favore dell'altro, e con timore e rispetto diremo che siamo qualcosa, ma per il cuore di Dio; che siamo qualcosa non per dignità nostra, ma in quanto, per grazia sua, ce ne considera degni ".
26. Il timor di Dio, attribuito ai credenti in tutta la Scrittura e, di volta in volta definito "principio della sapienza "e "sapienza "stessa (Pr 1.7; 9.10; Gb. 28.28) , pur essendo unico procede da un duplice sentimento. Poiché Dio ha in se il rispetto dovuto sia ad un padre sia ad un padrone. Chiunque perciò vorrà rettamente onorarlo, cercherà di atteggiarsi nei suoi riguardi come figlio obbediente e servo pronto a compiere il suo dovere.
L'obbedienza a lui dovuta in quanto nostro padre, egli la chiama, per bocca del suo Profeta, "onore ". Il servizio che gli è reso in quanto nostro padrone, lo chiama "timore " "Il figlio "dice "onora suo padre ed il servo il suo padrone. Se sono vostro padre, dov'è l'onore che mi dovete? Se sono il vostro padrone, dov'è il timore? ", (Ma.1.6). Tuttavia, sebbene li distingua, inizialmente li confonde comprendendo l'uno e l'altro nel termine "onorare ". Di conseguenza, il timor di Dio sia per noi un rispetto misto di onore e timore.
Non fa meraviglia che un medesimo cuore ospiti insieme questi due sentimenti. F: ben vero che colui che considera qual padre Dio è per noi, ha ragioni sufficienti, quand'anche non esistesse l'inferno, per ritenere più grande orrore l'offenderlo che il morire; ma poiché la nostra carne è incline ad abbandonarsi al male, è anche necessario, per moderarla, avere presente allo spirito che il Signore, alla cui potenza siamo sottomessi, ha in abominio ogni iniquità; coloro che avranno provocato la sua collera vivendo da malvagi non sfuggiranno alla sua vendetta.
27. Il dire di san Giovanni, che nell'amore non c'è paura ma che l'amore perfetto caccia via la paura (1 Gv. 4.18) , non contraddice in nulla a ciò, visto che egli distingue nettamente il tremore dell'incredulità dal timore dei credenti. Gli iniqui non temono Dio per paura di offenderlo, qualora lo si potesse fare senza punizione; ma sapendo che è potente nel vendicarsi, tremano ogniqualvolta si parla loro della sua ira. Anzi, temono la sua ira, in quanto la giudicano vicina e aspettano di ora in ora che venga a sopraffarli.
I credenti, invece, come è stato detto prima, temono maggiormente l'eventuale offesa recatagli di quanto temano la punizione, non sono spaventati dal timore di essere puniti, come se l'inferno fosse già dinanzi a loro per inghiottirli; il timore li rende più prudenti, e li preserva dal pericolo.
Perciò l'Apostolo, nel parlare ai credenti, dice: "Non vi ingannate, a questo riguardo l'ira di Dio è solita venire sui figli ribelli " (Ef. 5.6). Non li minaccia dicendo che l'ira di Dio scenderà su di loro, ma li esorta a pensare che essa è preparata per i malvagi, riferendosi ai peccati che aveva precedentemente elencati, affinché non la debbano anch'essi sperimentare.
Non accade spesso che i reprobi siano destati e impressionati da semplici minacce, anzi, inebetiti nell'indifferenza, malgrado Dio li fulmini dal cielo sia pure con parole, si irrigidiscono nell'atteggiamento ribelle; sentendo però i colpi della sua mano, sono costretti a temere, lo vogliano o no. Si è soliti definire questo tipo di sentimento, timore "servile ", per distinguerlo da una sottomissione libera e spontanea, quale ha da essere quella dei bambini nei confronti del loro padre.
Taluni in vena di sottigliezze parlano di un terzo tipo di soggezione, in quanto il timore servile e forzato è come una preparazione a temere Dio nel modo dovuto, dandoci così un sentimento di tipo intermedio per andare oltre.
28. Cl. dire che la fede guarda alla benevolenza di Dio bisogna intendere che da essa otteniamo il possesso della salvezza e la vita eterna. Se nulla ci può mancare quando Dio è propizio, ci deve bastare, per essere certi della salvezza, la garanzia che Dio ci dà del suo amore per noi. "Che egli mostri il suo volto "dice il Profeta "e saremo salvati " (Sl. 80.4). Così la Scrittura riassume la nostra salvezza: il Signore, avendo abolito ogni inimicizia, ci ha ricevuti nella sua grazia (Ef. 2.14). Intendendo con questo che, essendo Dio riconciliato con noi, non c'è alcun pericolo che le cose possano non volgere al bene. Perciò la fede, afferrando l'amore di Dio, ha in se le promesse di vita presente e futura, e un'assoluta certezza di ogni bene, quale si può ricevere dalla parola dell'Evangelo. La fede certo, non si ripromette né lunga vita, né grandi onori, né abbondanza di ricchezze nella vita presente, in quanto il Signore non ha voluto che ci fosse garantito alcunché di questo genere; essa si accontenta della certezza che, quand'anche ci vengano meno molti vantaggi di questa vita, Dio non ci verrà mai meno. La sicurezza della fede riposa essenzialmente sull'attesa della vita futura che la Parola di Dio ha posto al di fuori di ogni dubbio.
Per quanto siano numerose le calamità e le miserie che possono toccare in sorte a coloro che il nostro Signore ha accolti una volta per tutte nel suo amore, esse non potranno impedire che la benevolenza di Dio costituisca da sola la loro piena felicità. Perciò quando abbiamo voluto definire la sostanza di ogni beatitudine, abbiamo parlato della grazia di Dio, fonte da cui ci proviene ogni bene. Questo è facile da riscontrare nella Scrittura, la quale ci richiama sempre all'amore di Dio, non solo quando menziona la salvezza eterna, ma ogni nostro bene. Per questa ragione Davide dichiara che la bontà di Dio, quando è sentita dal cuore del credente, è più dolce e desiderabile della vita stessa (Sl. 63.4).
In definitiva, quand'anche tutto accadesse secondo i nostri desideri, e tuttavia fossimo incerti sulla realtà dell'amore di Dio o sul suo odio, la nostra felicità risulterebbe sempre maledetta e pertanto sarebbe infelicità. Se Dio invece ci rivolge uno sguardo paterno, le nostre stesse miserie diventeranno motivo di beatitudine perché si muteranno in ausilio per la salvezza. San Paolo, enumerando tutte le avversità che ci possono colpire, si rallegra del fatto che esse non ci separeranno mai dall'amore di Dio (Ro 8.35). E nel pregare per i credenti, inizia sempre Cl. far menzione della grazia, da cui ogni prosperità trae la sua origine e la sua fonte. Anche Davide contrappone il solo favore di Dio ad ogni timore che ci potrebbe turbare: "Quand'anche camminassi "dice "nell'oscurità della morte, non temerò se tu sarai con me " (Sl. 23.4). Costatiamo al contrario quanto i nostri cuori siano inquieti quando non ricercano nella grazia di Dio la loro pace e il loro riposo accontentandosi di essa, e avendo ben chiara questa citazione: "Beato il popolo di cui l'Eterno è il Dio, e la nazione che egli si è scelta come erede " (Sl. 33.12).
29. A fondamento della fede, poniamo la promessa gratuita, sulla quale essa poggia fermamente. Sebbene la fede consideri Dio verace in tutto e per tutto, sia che ordini, proibisca, prometta o minacci, e sebbene anche accolga con obbedienza i suoi comandamenti, si attenga ai suoi divieti e tema le sue minacce, tuttavia ha il suo fondamento nella promessa, si attiene ad essa e in essa ha la sua meta. La vita che essa cerca in Dio non si trova né nei comandamenti né nelle minacce, bensì nella sola promessa di misericordia, anzi nella promessa gratuita; poiché le promesse legate a una condizione, rimandandoci alle nostre opere, promettono vita soltanto in quanto la troviamo in noi stessi.
Se non vogliamo dunque che la fede tremi e vacilli per ogni dove, dobbiamo fondarla su una promessa di salvezza offertaci volontariamente e con pura generosità dal Signore, piuttosto in considerazione della nostra miseria che della nostra dignità. Per questa ragione l'Apostolo indica l'Evangelo Cl. termine particolare di "parola della fede " (Ro 10.8) , termine che non attribuisce né ai comandamenti né alle promesse della Legge, poiché nulla può rappresentare una garanzia per la fede se non il messaggio della benignità di Dio, per cui egli riconcilia il mondo a sé. Di qui la relazione, spesso stabilita, fra fede ed Evangelo: come quando egli dice che l'Evangelo gli è stato affidato per condurre all'obbedienza della fede. E che esso è potenza di Dio per la salvezza di ogni credente, e che in esso la giustizia di Dio è rivelata da fede a fede (Ro 1.5.16-17). Questo non deve turbare poiché, essendo l'Evangelo il ministero della nostra riconciliazione con Dio (Il Corinzi 5.18) , non vi è alcun'altra autorevole testimonianza della benevolenza di Dio verso di noi, la cui conoscenza sia richiesta per fede.
Quando dunque diciamo che la fede deve fondarsi sulla promessa gratuita, non affermiamo che i credenti non siano tenuti a ricevere e riverire la Parola di Dio in tutte le sue manifestazioni ma riferiamo alla fede la promessa della misericordia come suo fine proprio. I credenti devono certo riconoscere Dio quale giudice e punitore dei misfatti, tuttavia considerano in modo particolare la sua clemenza in quanto è loro presentato in questo modo: benigno e misericordioso, lento all'ira, incline alla bontà, benevolo verso tutti e disposto a spandere la sua misericordia su tutte le sue opere (Sl. 86.5; 103.8; 145.8).
30. Mi preoccupa assai poco che Pighius e i cani suoi simili abbaino dicendo che con questa limitazione, da noi posta, si squarcia la fede prendendone una parte soltanto. Riconosco, come già ebbi occasione di dire, che la verità di Dio, che minacci o offra grazia, è oggetto della fede. L'Apostolo afferma che Noè, per fede temette il diluvio prima che avvenisse (Eb. 11.7).
A questo punto questi sofisti argomentano che se la fede produce in noi il timore delle punizioni che ci dovranno accadere, non dobbiamo escludere, definendola, le minacce con cui Dio vuole spaventare i peccatori. Ma ci fanno torto e ci calunniano ingiustamente, quasi non avessimo affermato che la fede ha da considerare la Parola di Dio nella sua interezza e sempre. In realtà i due punti che ci preme sottolineare sono questi: la fede non ha stabilità finché non si fonda sulla promessa gratuita di salvezza, in secondo luogo essa non ci rende graditi a Dio, se non in quanto ci unisce a Cristo. Sono questi i due punti fondamentali.
È in gioco una fede in base alla quale si possa distinguere i figli di Dio dai reprobi, i credenti dagli increduli. Se uno crede che Dio non comanda nulla se non giustamente, e non minaccia che a ragione, sarà quel tale considerato credente? Si dirà di no. Non vi sarà dunque stabilità alcuna nella fede, se il suo punto di riferimento non è rappresentato dalla misericordia di Dio.
D'altronde, perché stiamo qui interrogandoci riguardo alla fede? Non è forse per sapere quale sia il mezzo della salvezza? In che modo la fede ci salva se non per il fatto che siamo innestati nel corpo di Cristo? A ragione dunque, nel definirla, insistiamo sul suo principale risultato, ed aggiungiamo questo segno, che distingue i credenti dagli increduli. In sostanza, i malvagi non hanno nessun argomento per attaccare il nostro insegnamento a meno di voler accusare anche san Paolo, che chiama l'Evangelo dottrina della fede (Ro 10.8) , e gli attribuisce questo titolo speciale.
31. Dobbiamo dedurre da questo il concetto già esposto, che la Parola è essenziale alla fede come la radice vivente lo è ad un albero, per fargli portar frutto. Secondo il pensiero di Davide: "Nessuno può sperare in Dio se non ha conosciuto il suo nome " (Sl. 9.2). Questa conoscenza non è frutto della nostra immaginazione, ma deriva dal fatto che Dio stesso è testimone della sua bontà. Davide lo conferma in un altro testo dicendo: "La tua salvezza sia per me secondo la tua parola! " (Sl. 119.41). E: "Ho sperato nella tua parola, salvami ". Bisogna dunque sottolineare la correlazione tra fede e Parola, da cui deriva in seguito la salvezza.
Non escludo tuttavia la potenza di Dio: se la fede non si fonda su di essa, mai renderà a Dio l'onore che gli è dovuto. L'argomento di san Paolo può sembrare debole e banale quando dice che Abramo credette che Dio era potente per fare quello che aveva promesso (Ro 4.21); O quando dice di se: "Io so in chi ho creduto: egli è potente per custodire il mio deposito fino all'ultimo giorno " (2Ti 1.12). Se però consideriamo e valutiamo attentamente i dubbi che del continuo e ininterrottamente si insinuano nel nostro spirito per farci dubitare della potenza di Dio, ci accorgeremo che hanno progredito non poco nella fede, coloro che la magnificano come ne è degna. Tutti riconosciamo che Dio fa tutto ciò che vuole, ma la minima tentazione ci getta in timori e turbamento; è dunque chiaro che ci sottraiamo in modo eccessivo alla potenza di Dio anteponendole le minacce di Satana, benché le promesse di Dio siano tali da proteggerci contro di esse.
Isaia, volendo imprimere nel cuore dei Giudei la certezza della loro salvezza, esalta in modo meraviglioso la potenza infinita di Dio. Talvolta può sembrare che, affermando che Dio perdonerà i loro peccati e farà loro grazia e aggiungendo quanto le opere di Dio siano meravigliose nel reggere il cielo e la terra, egli si smarrisca con ragionamenti lunghi e superflui; ogni cosa però serve al problema che sta trattando. Se la potenza di Dio non ci è esplicata in modo visibile, difficilmente le orecchie accoglieranno la Parola, o la terranno nella stima dovuta.
Dobbiamo altresì notare che in questo passo la Scrittura ci parla di una potenza attuosa di Dio; la fede, come già abbiamo detto, la riferisce sempre a se stessa e la mette in opera per trarne vantaggio. Essa considera in modo particolare le opere attraverso le quali Dio si rivela come padre. Perciò il ricordo della redenzione è così spesso richiamato alla memoria dei Giudei: da questo richiamo essi erano in condizione di imparare che Dio, autore una volta della loro salvezza, l'avrebbe mantenuta fino alla fine.
Anche Davide ci insegna col suo esempio che i beni dati da Dio ad ognuno in particolare, devono servire a confermare la fede riguardo al futuro. Se anche pare averci trascurati, dobbiamo spingere innanzi il nostro pensiero per ricavare fiducia dai benefici di un tempo, come è detto nell'altro Salmo: "Mi sono ricordato dei giorni antichi, ho meditato su tutte le tue opere " (Sl. 143.5). E: "Mi ricorderò delle opere del Signore e delle meraviglie che ha compiuto anticamente " (Sl. 77.12). Ma poiché tutto ciò che immaginiamo della potenza di Dio e delle sue opere è confuso e privo di sicurezza senza la sua Parola, non senza motivo diciamo che non può esservi fede se Dio non ci illumina attestandoci la sua grazia.
Si potrebbe a questo punto sollevare una obiezione riguardo a Sara e Rebecca le quali, spinte, come sembra, da fede zelante, sono tuttavia uscite dai limiti della Parola. Sara infatti, per l'ardente desiderio della discendenza promessa, diede la sua serva per moglie a suo marito (Ge 16.5). È innegabile che ha sbagliato in molti modi; mi occuperò, per il momento, soltanto di questo peccato: trasportata dal suo zelo, non si è attenuta ai limiti della parola di Dio. È: fuor di dubbio, tuttavia, che quel desiderio le proveniva dalla fede.
Rebecca, dopo che Dio le aveva rivelato l'elezione di Giacobbe, ricorrendo ad un inganno malvagio e perverso fece in modo che questi fosse benedetto da Isacco, testimone e ministro della grazia di Dio; obbligando suo figlio a mentire, essa corrompe la verità di Dio con frode e menzogna ed annulla, per parte sua, la promessa di Dio, esponendola ad obbrobrio e scherno (Ge 27.6). Ma quest'atto, per quanto peccaminoso e degno di riprensione, non è stato del tutto privo di fede. Infatti ha dovuto sormontare un notevole scandalo per compiere con tanto ardore un atto carico di turbamenti, rischi e pericoli, senza la speranza di trarne alcun vantaggio. Né potremmo negare completamente la fede del santo patriarca Isacco anche se, avvertito da Dio che il diritto di primogenitura era trasferito al figlio minore, non cessò di nutrire un debole per il primogenito Esaù.
Esempi simili ci mostrano che ci sono spesso errori frammisti alla fede, ma essa ottiene sempre il sopravvento, quando è vera e integra. La colpa specifica di Rebecca non ha inficiato o reso inutile l'effetto della benedizione, parimenti non ha annullato la fede che normalmente regnava nel suo cuore e che è stata radice e movente di quell'atto. Rebecca è però la dimostrazione di quanto l'intendimento umano sia esposto a rischi e smarrimenti, non appena assume la libertà di compiere qualcosa di sua iniziativa. Sebbene la mancanza e la debolezza insita nella fede non la spenga del tutto, ci è tuttavia ricordato con quanta cura dobbiamo ascoltare Dio, come se fossimo legati alla sua bocca.
Quanto abbiamo detto trova conferma: la fede, quando non si appoggia sulla Parola, svanisce ben presto così come Sara, Isacco e Rebecca, persi nei loro errori, sarebbero subito venuti meno se non fossero stati sorretti da una briglia segreta costituita dall'obbedienza alla Parola.
32. Non senza ragione concentriamo tutte le promesse in Cristo, come l'Apostolo concentra tutto l'Evangelo nella conoscenza di Gesù Cristo (Ro 1.17). In un altro passo insegna che finché sussistono, le promesse di Dio trovano in lui il loro sì e il loro amen (2 Co. 1.20) , cioè sono ratificate. La ragione è evidente: quanti siano i beni che il Signore promette, egli attesta la sua benevolenza nel fatto che tutte le sue promesse sono testimonianza del suo amore.
Ciò non significa che gli iniqui, nella misura in cui ricevono benefici dalla sua mano, non si rendano meritevoli di un giudizio tanto più grave. Non riconoscendo che i beni che hanno provengono loro dalla mano di Dio o, qualora lo riconoscano, non tenendo conto della sua bontà nei loro cuori, non la possono capire più di quanto la capiscono le bestie che, a seconda della loro specie, ricevono l'adeguato frutto della sua liberalità, senza tuttavia averne riconoscenza. Né esitiamo a dire che, respingendo le promesse a loro rivolte, attirano in tal modo sul loro capo una più grave vendetta. Se l'efficacia delle promesse è evidenziata dal nostro accoglierle, la loro verità e peculiarità non sono spente dalla nostra infedeltà o ingratitudine.
Così dunque il Signore dichiara agli uomini il suo amore, invitandoli con le sue promesse non solo a ricevere i frutti della sua benignità, ma anche a credere ad essi e ad apprezzarli. Bisogna tornare a questo argomento: ogni promessa è una testimonianza dell'amore di Dio per noi. È indubbio che nessuno è amato da Dio se non in Cristo, il figlio diletto, in cui riposa l'amore del padre (Mt. 3.17) , che da lui si spande su noi: san Paolo insegna che siamo resi accettevoli per mezzo di questo figlio diletto (Ef. 1.6). Bisogna dunque che per mezzo suo questa amicizia giunga fino a noi. L'Apostolo lo definisce "la nostra pace " (Ef. 2.14) e, in un altro passo lo addita come il legame per mezzo del quale la volontà del Padre si ricongiunge a noi (Ro 8.3). Dobbiamo pertanto sempre guardare a lui, quando ci e offerta qualche promessa; e san Paolo si esprime correttamente insegnando che tutte le promesse di Dio sono in lui confermate e compiute (Ro 15.8). Questo sembra essere contraddetto da alcuni esempi: non è verosimile che Naaman il Siro, quando chiese al Profeta in che modo poteva servire rettamente Dio, fosse informato riguardo al Mediatore (4 Re 5.17-19). È altrettanto difficile credere che Cornelio, pagano e romano, avesse capito ciò che non era noto a tutti i Giudei, neanche in modo oscuro; eppure le sue elemosine furono gradite a Dio così come fu approvato il sacrificio di Naaman (At. 10.31). Né l'uno né l'altro hanno potuto ottenere questo, se non per fede. Lo stesso dicasi per l'eunuco al quale Filippo fu mandato: egli, straniero, non avrebbe mai intrapreso un viaggio così faticoso e dispendioso per adorare a Gerusalemme, se non avesse avuto una qualche traccia di fede nel cuore (At. 8.27-31). Vediamo tuttavia che, interrogato da Filippo riguardo al Mediatore, egli confessa la sua ignoranza.
Ammetto che la loro fede sia stata in parte oscura, non solo riguardo alla persona di Gesù Cristo ma anche alla sua potenza e al compito conferitogli da Dio suo padre. F: indubbio però che esistevano in essi elementi che davano loro una qualche percezione di Gesù Cristo. Questo non è insolito: l'eunuco non sarebbe mai venuto da un paese così lontano per adorare in Gerusalemme un Dio sconosciuto e Cornelio, voltosi alla religione dei Giudei, non sarebbe vissuto là senza familiarizzarsi con i rudimenti del puro insegnamento della Legge. Quanto a Naaman, non sarebbe ammissibile che Eliseo, nell'indicargli quel che doveva fare riguardo a cose di poco conto, avesse dimenticato il punto fondamentale. Se anche la conoscenza di Gesù Cristo fu per loro oscura, non c'è ragione di considerarla inesistente del tutto, principalmente per il fatto che si applicavano a compiere i sacrifici prescritti dalla Legge, diversi dalle cerimonie dei pagani a causa del loro fine, cioè Gesù Cristo.
33. Questa semplice dichiarazione della Parola di Dio dovrebbe bastare a generare la fede in noi se la nostra cecità e ostinazione non vi frapponessero un impedimento. Ma essendo il nostro spirito propenso alla vanità, non può accogliere la verità di Dio; inebetito, non può vederne la luce. Di conseguenza, la Parola non giova a nulla di per se, senza l'illuminazione dello Spirito Santo. È: dunque evidente che la fede esula da ogni umana intelligenza. Non basta che l'intelletto sia illuminato dallo Spirito di Dio se il cuore non è reso saldo dalla sua potenza. I teologi della Sorbona sbagliano in modo grossolano pensando che la fede sia un semplice assenso alla Parola di Dio, cioè intelligenza disgiunta da fiducia e certezza di cuore.
La fede è dunque un singolare dono di Dio, sotto due aspetti. Anzitutto perché l'intelletto dell'uomo è illuminato per capire la verità di Dio; poi perché il cuore è da questa fortificato. Lo Spirito Santo non si limita a dare inizio alla fede, ma l'aumenta gradatamente fino a condurci al Regno dei cieli. San Paolo ammonisce Timoteo affinché custodisca il deposito eccellente che aveva ricevuto dallo Spirito Santo che abita in noi (2Ti 1.14).
Qualcuno potrebbe invece ricordare che lo Spirito ci è dato per mezzo della predicazione della fede (Ga 3.2) : l'obiezione però può essere facilmente risolta. Qualora il dono dello Spirito fosse unico, non sarebbe corretto dire che lo Spirito procede dalla fede, essendone autore e causa; ma san Paolo parla, in quel punto, dei doni che Dio conferisce alla sua Chiesa per condurla progressivamente alla sua perfezione; non c'è dunque da meravigliarsi che li attribuisca alla fede che ci prepara e dispone a riceverli. i;: pur vero che risulta veramente ostico alla gente, il concetto che non può credere in Cristo se non colui al quale ciò è dato in maniera particolare; ciò è dovuto in parte al fatto che gli uomini non considerano come e quanto sia profonda e difficile da capire la saggezza celeste, né qual sia la loro ignoranza e la loro debolezza nell'intendere i misteri di Dio; in parte anche al non prendere in considerazione la fermezza di cuore che costituisce la parte essenziale della fede.
34. Quest'errore è facile da debellare. Come dice san Paolo: "Se nessuno può essere testimone della volontà dell'uomo, tranne lo spirito dell'uomo che è in lui " (1 Co. 2.2) , in che modo la creatura sarebbe certa della volontà di Dio? E se la verità di Dio ci appare dubbia nelle cose che vediamo con i nostri occhi, come potrebbe essere per noi certa e indubitabile, quando il Signore ci promette le cose che l'occhio non vede e che l'intelletto non può comprendere? La sapienza umana è a questo riguardo così inebetita e appesantita, che il primo passo per progredire alla scuola del Signore è rinunciare ad essa. Come un velo interposto, ci impedisce di capire i misteri di Dio rivelati soltanto ai piccoli (Mt. 11.25). Non sono la carne ed il sangue a rivelarli (Mt. 16.17) , e l'uomo naturale non è in grado di comprendere le cose spirituali: per lui, l'insegnamento divino è follia, non potendo essere conosciuto che ad opera dello Spirito (1 Co. 2.14).
Ci è dunque necessario in questo campo l'aiuto dello Spirito Santo, anzi qui la sua potenza regna sovrana. "Nessun uomo ha conosciuto il segreto di Dio o è stato suo consigliere " (Ro 11.34) : ma lo Spirito che ci fa conoscere la volontà di Cristo penetra ovunque, fino alle cose nascoste (1 Co. 2.10). "Nessuno può venire a me "dice il Signore Gesù "se il Padre che mi ha mandato non lo attira ". "Chiunque "dice "ha ascoltato mio Padre ed ha imparato da lui, viene a me; nessuno ha veduto il Padre, se non colui che è mandato da Dio " (Gv. 6.44-45).
Come dunque non possiamo avvicinarci a Cristo se non attratti dallo Spirito di Dio, parimenti quando siamo attratti siamo assolutamente trasportati al di sopra della nostra capacità di intendimento. L'anima, da lui illuminata, riceve per così dire un occhio nuovo per contemplare i segreti celesti dal cui splendore era prima accecata. L'intelletto dell'uomo, illuminato dalla luce dello Spirito Santo, comincia ad assaporare le cose attinenti al Regno di Dio, di cui in precedenza non poteva avere percezione alcuna. Il nostro Signor Gesù Cristo, pur svelando esattamente i misteri del suo Regno ai due discepoli menzionati da Luca, non ottiene alcun risultato finché non apre il loro intendimento perché capiscano le Scritture (Lu 24.27). E quando gli apostoli sono stati istruiti dalla sua bocca divina, è ancora necessario che sia loro mandato lo Spirito di verità, che dia accesso, nel loro intelletto, all'insegnamento giunto prima alle loro orecchie.
La Parola di Dio è simile al sole: risplende per tutti coloro cui è annunciata, ma è senza efficacia per i ciechi. Siamo per natura tutti ciechi su questo punto, di conseguenza essa non può penetrare nel nostro spirito, se lo Spirito di Dio, guida interiore, non le apre la strada con la sua luce.
35. Nel trattare della corruzione della nostra natura, abbiamo illustrato in modo più ampio l'insufficienza a credere connaturata agli uomini; non è pertanto il caso di tediare i lettori Cl. ripetere quel che è stato detto. Ci basti sapere che quando san Paolo parla dello spirito di fede (2 Co. 4.13) , egli intende quella fede che ci è data e che non abbiamo per natura. Infatti prega Dio di compiere il suo volere nei fratelli di Tessalonica e di portare a termine la loro fede con potenza (2Tess 1.2). Definendo la fede "opera di Dio "e adoperando il termine "volere ", o "favore gratuito ", dichiara che essa non appartiene alla natura umana. Aggiunge anzi che è un'opera in cui Dio rivela la sua potenza.
Quando dice ai fratelli di Corinto che la fede non dipende dalla sapienza umana ma è fondata sulla potenza dello Spirito (1 Co. 2.4) , parla dei miracoli visibili, ma considerando l'incapacità dei reprobi a trarne vantaggio e a intenderne il senso, include anche il marchio invisibile che sigilla la verità di Dio nei nostri cuori, come dice anche altrove. Dio stesso, per magnificare maggiormente e far risplendere la sua generosità in un dono così eccellente, non lo concede a tutti indifferentemente, ma con privilegio particolare lo distribuisce a chi gli pare. Lo abbiamo già provato, con validi argomenti. Sant'Agostino, commentatore verace, dice: "Il nostro Salvatore, per dimostrare che il credere è un dono e non un merito, dice: Nessuno viene a me, se il Padre mio non lo attira e se ciò non gli è stato dato dal Padre mio (Gv. 6.44). Fa meraviglia che, quando due ascoltano, l'uno disprezzi e l'altro progredisca. Colui che disprezza se ne imputi la colpa; colui che cammina per fede non se ne usurpi l'onore ". In un altro passo: "Perché all'uno è dato e non all'altro? Non mi vergogno di dire che è un profondo segreto della croce, un segreto degli intendimenti di Dio che io non conosco, di cui non ci è lecito andare alla ricerca ma da cui procede tutto quel che è in nostro potere. Vedo bene quello che posso; non vedo donde mi venga quel potere, se non da Dio. Ma perché Dio chiama l'uno e non l'altro? Questo è troppo profondo per me: è un abisso, è una profondità della croce. Posso estasiarmi davanti a questo fatto, ma non lo posso dimostrare con ragionamenti".
Riassumendo, Gesù Cristo, illuminandoci mediante la fede, ci innesta sul suo corpo per renderci partecipi di tutti i suoi beni.
36. Ciò che l'intelletto ha percepito deve quindi essere radicato nel cuore. Poiché se la parola di Dio volteggia soltanto nel cervello, non si può dire che sia ancora ricevuta per fede: è veramente ricevuta quando si è radicata nel profondo del cuore, fortezza invincibile che affronta e respinge tutti gli assalti delle tentazioni. Se la vera intelligenza del nostro spirito consiste in una illuminazione dello Spirito di Dio, la potenza di quest'ultimo si manifesta in modo molto più evidente in questa conferma del cuore, perché c'è più diffidenza nel cuore che accecamento nello spirito ed è più difficile rassicurare il cuore che istruire l'intelletto. Lo Spirito Santo si manifesta in questo caso come un sigillo che suggella nei nostri cuori quelle stesse promesse che ha dapprima impresse nel nostro intelletto, ed è come un pegno per confermarle e ratificarle.
"Avendo creduto "dice l'Apostolo "avete ricevuto il suggello dello Spirito di promessa, il quale è pegno della nostra eredità " (Ef. 1.13-14). Osservate come egli affermi che i cuori dei credenti sono segnati dallo Spirito Santo come da un suggello, e definisca lo Spirito "Spirito della promessa ", in quanto ci presenta l'Evangelo come una realtà fuori di dubbio. Anche ai fratelli di Corinto dice: "Dio ci ha unti e ci ha segnati e ha posto nei nostri cuori il pegno del suo Spirito ". E in un altro passo, parlando della fiducia e dell'ardire della nostra speranza, mette a fondamento di questa speranza il pegno del suo Spirito (2 Co. 1.22; 5.5).
37. Non ho dimenticato l'affermazione fatta in precedenza 25che l'esperienza ci ricorda del continuo: la fede è scossa da molti dubbi, inquietudini e paure, sicché le anime dei credenti non sono affatto in riposo; per lo meno non possono sempre adagiarsi in una vita tranquilla. Per quanto duri e violenti siano gli assalti che devono sostenere, esse li vincono sempre e, respingendo le tentazioni, mantengono la loro forza. Questa sicurezza basta per nutrire e confermare la fede, quando siamo ben certi della verità di quel che dice il Salmo: "Il Signore è la nostra protezione e il nostro aiuto nel bisogno: perciò non saremo turbati, anche quando tremasse la terra e le montagne fossero gettate nella profondità del mare " (Sl. 46.3). Altrove ci è ricordato quanto è piacevole questo riposo, laddove Davide dice che si è coricato e ha dormito placidamente, poi si è alzato, in quanto era sotto lo sguardo di Dio (Sl. 3.6). Non già che abbia sempre e costantemente goduto di una gioia e di una sicurezza tali da non sentirsi mai turbato, ma per il fatto che assaporava la grazia di Dio secondo la misura della sua fede, si vanta di poter disprezzare coraggiosamente tutto ciò che può tormentare il suo spirito. La Scrittura, volendoci esortare alla fede, ci ordina di stare in riposo, come in Isaia: "La vostra forza risiederà nella speranza e nel silenzio " (Is. 30.15). E nel Salmo: "Sta' in silenzio e aspetta il Signore " (Sl. 37.7). A questo fanno eco le parole dell'Apostolo: "È necessaria la pazienza, ecc. " (Eb. 10.36).
38. Si può giudicare da questo quanto sia dannosa la dottrina dei teologi sofisti, secondo la quale non possiamo accogliere in noi nulla della grazia di Dio, se non in base ad una congettura morale, secondo che ciascuno reputi se stesso non indegno di questa grazia.
Se siamo ridotti a valutare l'atteggiamento di Dio verso di noi in base alle opere, confesso che non siamo in grado di capirlo, neanche per mezzo di tutte le congetture; ma poiché la fede deve rispondere alla semplice e gratuita promessa di Dio, non sussiste alcun dubbio. Di quale fiducia saremmo noi premuniti contro il Diavolo, se pensiamo che Dio ci è propizio soltanto a condizione che lo meritiamo? Avendo deciso di trattare questo argomento più avanti, non ne parleremo, per ora, più a lungo: e chiaro che nulla è più contrario alla fede, di una congettura o altro sentimento affine al dubbio o all'ambiguità.
Per confermare questo errore, sono soliti citare un passo dell'Ecclesiaste che snaturano in malo modo: "Nessuno sa se è degno di odio o di amore ", (Ecclesiaste 9.1). Prescindendo dal fatto che questa affermazione è stata male interpretata nella traduzione comune, anche i fanciulli sono in grado di capire quel che Salomone ha voluto dire: chi volesse giudicare quali sono coloro che Dio ha riprovati, in base alle cose presenti, farà una fatica inutile; prosperità ed avversità sono comuni sia al giusto sia all'iniquo, sia a colui che serve Dio sia a colui che non vi bada. Ne deriva che non sempre Dio manifesta il suo amore verso coloro a cui per un certo tempo concede di portare frutto, né dichiara il suo odio verso coloro che affligge. Questo è detto per redarguire la vanità della mente umana, così inebetita nel considerare le cose tanto necessarie. Poco prima aveva detto che non si può discernere in che cosa l'anima dell'uomo differisca da un'anima di bestia, dato che entrambe sembrano morire di una stessa morte (Ecclesiaste 3.19).
Se qualcuno volesse dedurre che l'affermazione circa l'immortalità delle anime è fondata solo su una congettura, non lo giudicheremmo a buon diritto fuor di senno? Sono dunque sani di mente costoro, quando deducono che gli uomini non hanno alcuna certezza della grazia di Dio in quanto non la si può percepire con lo sguardo carnale delle cose presenti?
39. Giudicano presunzione temeraria il volersi attribuire una conoscenza indubitabile della volontà divina: questo sarebbe il caso qualora ci proponessimo di voler ridurre la volontà incomprensibile di Dio nei limiti angusti del nostro intendimento. Quando però diciamo, con san Paolo, che abbiamo ricevuto uno spirito che non è di questo mondo ma che procede da Dio, e attraverso quello conosciamo i beni che Dio ci ha dato (1 Co. 2.12) , che cosa si può ancora mormorare senza recare ingiuria allo Spirito di Dio? Se è orribile sacrilegio il sospettare di menzogna o di incertezza o di ambiguità una qualche rivelazione che proviene da lui, in che cosa sbagliamo affermando la verità di ciò che ci ha rivelato?
Ma insistono affermando che è temerario, da parte nostra, osare vantarci dello Spirito di Cristo. In questo dimostrano abbondantemente la loro stupidità. Chi mai penserebbe che in gente che ha la pretesa di essere Dottore del mondo intero, alberghi una tale ignoranza da ingannarsi in modo così grossolano riguardo ai dati fondamentali della fede cristiana? Se i loro scritti non ne facessero fede, non ci potrei credere. San Paolo afferma che non vi sono altri figli di Dio all'infuori di quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio (Ro 8.14) : costoro vogliono che i figli di Dio siano guidati dai loro propri spiriti, essendo privi di quello di Dio. San Paolo insegna che non possiamo chiamare Dio nostro padre se lo Spirito non imprime in noi questa invocazione, esso solo può attestare alla nostra anima che siamo figli di Dio (Ro 8.16) : costoro, pur non proibendo di invocare Dio, ci tolgono lo Spirito, sotto la cui guida bisognava invocarlo. San Paolo dice che chi non è condotto dallo Spirito di Cristo non è suo servitore (Ro 8.9) : costoro inventano un cristianesimo che non sa che farsi dello Spirito di Cristo. San Paolo non ci dà alcuna speranza della beata risurrezione se non sentiamo lo Spirito Santo risiedere in noi (Ro 8.2). Costoro immaginano una speranza priva di quel sentimento.
Risponderanno forse che non negano che lo Spirito Santo ci sia necessario, ma che per umiltà e modestia dobbiamo pensare di non averlo. Se è così, che cosa vuol dunque l'Apostolo, quando ordina ai fratelli di Corinto di esaminare se stessi per sapere se Gesù Cristo abita in loro, aggiungendo che chiunque e privo di questa conoscenza è reprobo? (2 Co. 13.5-6). Per mezzo dello Spirito che ci ha dato, sappiamo che egli abita in noi, come dice san Giovanni (1 Gv. 3.24). E che altro facciamo se non mettere in dubbio le promesse di Gesù Cristo, quando vogliamo essere servitori di Dio senza il suo Spirito, visto che ha annunciato che lo spanderebbe su tutti i suoi? (Is. 44.3). Che altro facciamo se non sottrarre allo Spirito Santo la sua gloria, separandolo dalla fede che è opera sua specifica?
Essendo questi i primi elementi che dobbiamo imparare riguardo alla nostra religione, è indice di assoluta cecità tacciare i cristiani di arroganza quando si gloriano della presenza dello Spirito Santo, senza la quale non esiste alcuna fede cristiana. Dimostrano, Cl. loro esempio, quanto sia vera l'affermazione del Signore, che il suo Spirito è sconosciuto al mondo e che solo coloro nei quali abita lo conoscono (Gv. 14.17).
40. Per sradicare completamente la fede, l'attaccano ancora in altro modo: benché, dicono, sia possibile stabilire un giudizio sulla grazia di Dio in base alla giustizia in cui ci troviamo ora, la certezza della nostra perseveranza rimane in forse.
Ma che fiducia nella salvezza avremmo, se non potessimo che ipotizzare, mediante una congettura che definiscono "morale ", che siamo ora nella grazia di Dio, senza però sapere quel che accadrà domani! L'Apostolo si esprime in modo ben diverso quando dice di esser certo che né gli angeli, né le potenze, né i principati, né la morte, né la vita, né le cose presenti né le future ci potranno separare dall'amore con cui Dio ci accoglie in Gesù Cristo (Ro 8.38).
Tentano di cavarsela con una soluzione frivola, dicendo che l'Apostolo sapeva questo grazie ad una rivelazione speciale; ma la loro tesi è troppo debole per poter sussistere: in quel passo egli parla dei beni che derivano dalla fede a tutti i credenti in generale, non di ciò che sperimentava in particolare in se stesso.
Egli stesso, dicono, cerca di intimorirci mostrandoci la nostra debolezza e la nostra incostanza quando dice che colui che è in piedi deve guardarsi dal cadere (1 Co. 10.12). Verissimo, tuttavia non a intimorisce per spaventarci ma solo per insegnarci ad umiliarci sotto la potente mano di Dio, come afferma san Pietro (1 Pi. 5.6). Inoltre, che fantasia è quella di limitare la certezza della fede ad un breve periodo di tempo, mentre la sua caratteristica è proprio di oltrepassare la vita presente per afferrare l'immortalità futura?
Quando dunque i credenti riconoscono che proviene dalla grazia di Dio il fatto che, illuminati dal suo Spirito, siamo in grado di contemplare, per mezzo della fede la vita futura, siamo ben lontani dal poter tacciare di arroganza questa gloria! E se taluno si vergogna di confessarlo, dimostra di essere ingrato, più che modesto o umile, poiché annulla e oscura la bontà di Dio che invece dovrebbe magnificare.
41. A mio parere la natura della fede non poteva essere espressa meglio né più chiaramente che per mezzo del contenuto delle promesse, suo fondamento e sostegno senza il quale inciamperebbe subito, anzi, svanirebbe: perciò ho tratto dalle promesse la definizione che ho dato, che tuttavia non si scosta dalla descrizione che ne fa l'Apostolo in base all'argomento che tratta.
Dice che la fede è certezza delle cose che si sperano, e una dimostrazione delle cose che non si vedono (Eb. 11.1). Con il termine "ipostasi "egli vuol significare la certezza su cui si fondano le anime credenti. È: come se dicesse che la fede è un possesso certo ed infallibile delle cose che Dio ci ha promesso, a meno che qualcuno preferisca intendere il termine "ipostasi "nel senso di fiducia, il che non mi dispiace, anche se preferisco attenermi alla prima interpretazione, più corrente. Per far intendere che fino all'ultimo giorno, quando i libri saranno aperti (Da 7.10) , le cose che riguardano la nostra salvezza sono troppo profonde per essere afferrate dai nostri sensi, viste dai nostri occhi o toccate dalle nostre mani, e le possediamo solo sormontando la nostra capacità di comprensione e elevando il nostro sguardo al disopra di tutto ciò che si vede nel mondo, in breve, nella misura in cui sormontiamo noi stessi, egli aggiunge che una tale certezza concerne realtà situate in speranza e pertanto invisibili. Poiché l'evidenza, come dice san Paolo, è diversa dalla speranza, e non speriamo le cose che vediamo (Ro
Definendola indice o attestato delle cose che non si vedono o, secondo l'interpretazione di sant'Agostino, "testimonianza "mediante la quale siamo convinti, è esattamente come se dicesse che è un'evidenza di ciò che non appare, una visione di ciò che non si vede, uno scorgere le cose oscure, una presenza delle cose assenti, una dimostrazione di cose nascoste. I misteri di Dio, e in particolare quelli che riguardano la nostra salvezza, non possono essere contemplati nella loro natura, ma li guardiamo soltanto nella parola di Dio, della cui verità dobbiamo essere talmente persuasi da ritenere reale e compiuto tutto ciò che dice.
Come riconosceremo dunque e assaporeremo una così grande bontà di Dio, senza esser spinti nel contempo ad amarla? Poiché una dolcezza così abbondante come quella che Dio ha riservato per coloro che lo temono, non può in verità essere compresa senza che il cuore ne sia toccato. E non può commuoverlo senza attirarlo ed elevarlo a se. Non deve dunque stupire il fatto che quel sentimento non entri mai in un cuore perverso e falso, visto che ci apre gli occhi per farci accedere a tutti i tesori di Dio, e ai sacri segreti del suo Regno che non possono essere corrotti dalla presenza di un cuore impuro.
La teoria dei teologi della Sorbona, secondo cui la carità precede la fede e la speranza, è pura fantasticheria: in quanto soltanto la fede può generare in noi la carità. San Bernardo si esprime in modo assai più appropriato dicendo: "Credo che la testimonianza della coscienza, che san Paolo chiama la gloria dei credenti (2 Co. 1.12) , consiste in tre elementi. In primo luogo, ti è richiesto di credere che non puoi ottenere la remissione dei peccati se non dalla pura gratuità di Dio; in secondo luogo, che non puoi fare alcuna buona opera se egli stesso non te la concede; in terzo luogo, non puoi meritare con delle opere la vita eterna, se essa non ti è data in modo gratuito ". Poco oltre aggiunge: "Queste cose sono soltanto l'inizio della fede; credendo che soltanto Dio può rimetterci i peccati, dobbiamo nel contempo escludere ogni dubbio che ce li abbia rimessi, essendo così persuasi, per testimonianza dello Spirito Santo, che la nostra salvezza è ben certa; poiché Dio ci perdona i nostri peccati, ci dà egli stesso i meriti e per di più ci restituisce la ricompensa, non possiamo cristallizzarci in quell'inizio da lui posto ".
Questo punto ed altri simili saranno trattati altrove: ci basti ora intendere che cos'è la fede.
42. Dovunque questa viva fede sarà presente, inevitabilmente recherà con se la speranza della salvezza eterna, o piuttosto la genererà e la produrrà. Se questa speranza non ha sede in noi, possiamo fare quante chiacchiere vogliamo intorno alla fede, è chiaro che non ne comprendiamo nulla.
Se la fede, come è stato detto, è una persuasione certa della verità di Dio, e se questa verità non può mentire, ingannare né frustrare, chiunque ha concepito una ferma certezza attende parimenti che il Signore compia le sue promesse, ritenute veraci: in definitiva, la speranza non è altro che un'attesa dei beni che la fede ha creduto essere realmente promessi da Dio.
La fede crede che Dio è verace: la speranza aspetta che egli riveli a suo tempo la sua verità. La fede crede che egli è il nostro padre: la speranza aspetta che egli si mostri sempre tale verso di noi. La fede crede che ci è data la vita eterna: la speranza aspetta che noi un giorno l'otteniamo. La fede è il fondamento su cui riposa la speranza: la speranza nutre e mantiene la fede. Come non può attendere nulla da Dio, se non colui che ha inizialmente creduto alle sue promesse, così bisogna che la debolezza della nostra fede sia sostenuta, aspettando e sperando pazientemente, per non venir meno.
San Paolo si esprime rettamente situando la nostra salvezza in speranza (Ro 8.24); aspettando Dio in silenzio, essa sostiene la fede affinché non incespichi e non vacilli riguardo alle promesse di Dio, dubitandone; la speranza le ridà forza e la sostiene affinché non si stanchi; la conduce fino alla sua meta ultima affinché non venga meno a metà strada, o addirittura all'inizio; infine, rinnovandola e ristorandola quotidianamente, le dà, del continuo, vigore per perseverare.
Comprenderemo più chiaramente quanto è necessario che la fede sia confermata dalla speranza, tenendo presenti le molteplici tentazioni da cui sono assaliti coloro che hanno ricevuto una volta la Parola di Dio. Anzitutto il Signore, Cl. differire le sue promesse, spesso ci tiene in sospeso più di quanto vorremmo. È allora compito della fede fare ciò che dice il Profeta: se le promesse di Dio tardano, non cessiamo di aspettarle (Abacuc 2.3).
Talvolta poi, non solo Dio ci lascia languire nell'attesa ma pare essere adirato contro di noi; bisogna allora che la fede ci venga in aiuto affinché, secondo l'affermazione dell'altro Profeta, noi possiamo aspettare il Signore, sebbene ci abbia nascosto il suo volto (Is. 8.17).
Ci sono anche schernitori, come dice san Pietro, che chiedono dove sono le promesse e dove la venuta di Gesù Cristo (2 Pi. 3.4) visto che, dalla creazione del mondo, tutte le cose procedono allo stesso modo. Anche la carne ed il mondo suggeriscono questo alla nostra mente. Bisogna in questo caso che la fede, sostenuta e appoggiata dalla speranza, sia radicata e si concentri nella contemplazione dell'eternità del regno di Dio, al fine di considerare mille anni come un giorno (Sl. 90.4).
43. Data la loro affinità e somiglianza, la Scrittura confonde talvolta i vocaboli "fede "e "speranza "; così l'affermazione di san Pietro, che la potenza di Dio ci conserva, per mezzo della fede, fino alla rivelazione della salvezza (1 Pi. 1,,) , si addice meglio alla speranza che alla fede. Ma non è senza motivo: abbiamo infatti dimostrato che la speranza non è altro che fermezza e perseveranza della fede. Talvolta sono abbinati, come nella medesima epistola: "Affinché la vostra fede e la vostra speranza siano in Dio " (1 Pi. 1.21). San Paolo, rivolgendosi ai Filippesi, deduce l'attesa dalla speranza (Fl. 1.20) , perché, sperando pazientemente, teniamo imbrigliati i nostri desideri finché il tempo di Dio sia venuto. Questo risulta più chiaramente nel decimo capitolo dell'epistola agli Ebrei, che ho già citato. Sebbene si esprima impropriamente, san Paolo, in un altro passo, intende la stessa cosa dicendo: "Noi aspettiamo per fede, in spirito, la speranza della giustizia " (Ga 5.5) , senza dubbio in quanto, avendo ricevuto la testimonianza dell'Evangelo concernente l'amore gratuito di Dio, aspettiamo che Dio metta in evidenza e porti ad effetto ciò che è ancora nascosto sotto la speranza.
Non è difficile vedere ora quanto rozzamente il Maestro delle Sentenze si inganni, ponendo un duplice fondamento alla speranza: la grazia di Dio e il merito delle opere, mentre essa non può avere altro scopo all'infuori della fede. Abbiamo chiaramente dimostrato che la fede ha la sua meta unicamente nella misericordia di Dio e ad essa si attiene senza guardare altrove. È però interessante la bella motivazione che dà: "Se osi sperare qualcosa senza averlo meritato, questa non è speranza ma presunzione ". Vi chiedo, amici miei, chi di voi può trattenersi dal maledire simili bestie che ritengono temerario e presuntuoso credere con certezza nella veracità di Dio? Dio ci ordina di aspettare ogni cosa dalla sua bontà, e costoro dicono che è presunzione il riposarsi e l'acquetarsi in lei. Ma un tal maestro è degno dei discepoli che ha avuto nelle scuole dei Sofisti, cioè alla Sorbona.
Noi, al contrario, di fronte all'esplicito ordine di Dio rivolto ai peccatori, di avere una speranza certa di salvezza, ci fidiamo con tanto ardire della sua veracità, da rifiutare, in virtù della sua misericordia, ogni fiducia nelle nostre opere, e sperare, senza avere il minimo dubbio, ciò che promette. Così facendo, scopriremo che colui il quale ha detto: "Vi sarà fatto secondo la vostra fede " (Mt. 9.29) , non ci ingannerà.

Istituzioni della religione cristiana
di Giovanni Calvino (1559)
Biblioteca
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